Ahh, pensò, individuando una cellula attiva all’interno della morula. In essa la stasi aveva prodotto un rallentamento delle funzioni vitali relativamente contenuto. Nella cellula era possibile osservare un’intensa attività chimica. Riconobbe, mentre passavano attraverso il campo di visione del microscopio, due coppie basiche legate a una spirale complessa di fosfato di zucchero.
L’ansietà che aveva provato all’inizio era svanita: ora era stata sostituita dall’abituale sicurezza e provava la sensazione, a lui ben nota, che la morula fosse un oceano in cui nuotava, che l’interno della cellula fosse il suo habitat naturale.
«Due minimi di sulfidril,» disse.
«Sulfidril, due minimi,» ripeté Svengaard. «Pronto con l’ATP.»
«Ora,» disse Potter, che poi spiegò, «Sto per inibire la reazione di scambio nei sistemi mitocondrici. Cominciare con oligomicina e azide.»
Svengaard dimostrò la sua abilità obbedendo a Potter senza la minima esitazione. L’unico segno che manifestò del suo essere a conoscenza dei pericoli che comportava quella procedura fu la domanda, «Devo tener pronto un agente scorporante?»
«Stia pronto con l’arsenato numero uno,» rispose Potter.
«Il ciclo di Krebs sta diminuendo,» li informò l’infermiera addetta al computer. «Ora è a 89,4.»
«Effetto d’intrusione,» annunciò Potter. «Somministri 0,6 minimi di azide.»
Svengaard premette il pulsante.
«Zero virgola quattro di oligomicina,» disse poi.
Potter ormai aveva l’impressione di vivere soltanto attraverso gli occhi incollati all’oculare del microscopio e le mani che guidavano i micromanipolatori. La sua stessa esistenza si era trasferita nella morula, si era fusa in essa.
Gli occhi gli dissero che la mitosi periferica era cessata… come avrebbe dovuto, dopo la somministrazione di quei particolari enzimi. «Penso che ci siamo,» disse. Lasciò un segnale per individuare la posizione del microscopio, ne modificò l’ingrandimento, e si occupò delle spirali del DNA, alla ricerca dello squilibrio idrossilico, che avrebbe prodotto una valvola cardiaca difettosa. Ora che aveva individuato la cellula pilota, si era trasformato nell’artista, nell’abilissimo bioingegnere. Iniziò a riplasmare il delicato equilibrio chimico della struttura interna.
«Attivare il generatore,» annunciò.
Svengaard obbedì, mettendo in funzione il generatore di mesoni. «Attivato,» confermò.
«Il ciclo di Krebs è a settantuno,» annunciò l’infermiera addetta al computer.
«Primo taglio,» disse Potter. Liberò una singola, accurata, scarica di mesoni, osservò il caos turbinante che seguì. L’appendice idrossilica svanì. I nucleotidi si riformarono.
«Emoproteina P-450,» disse Potter. «Pronto a ridurla con NADH.» Attese, studiando le proteine globulari che si formavano davanti ai suoi occhi, osservando le molecole biologicamente attive. Adesso! L’istinto e l’esperienza si unirono per suggerirgli il momento adatto. «Due minimi e mezzo di P-450,» ordinò.
Nel cuore della cella il caos parve inghiottire un gruppo di catene di polipeptidi.
«Ridurre la quantità,» avvertì.
Svengaard regolò il dispensatore di NADH. Non vedeva direttamente ciò che vedeva Potter, ma la lente sulla fronte dell’altro gli rimandava un’immagine leggermente distorta del campo di visione del microscopio. Questo, oltre le istruzioni di Potter, gli faceva comprendere che nella cellula era un atto un lento processo di mutamento.
«Ciclo di Krebs a cinquantotto,» comunicò l’infermiera addetta al computer.
«Secondo taglio,» annunciò Potter.
«Generatore pronto,» disse Svengaard.
Potter cercò l’isovaltina responsabile del mixedema latente, la trovò. «Mi dia un nastro sulla struttura,» disse. «S-isopropylcarbossimetilcisteina.»
Il nastro del computer sibilò sulle bobine, si fermò, riprese a scorrere con ritmo lento, regolare. Nel quadrante superiore destro del campo di visione del microscopio apparve l’immagine di riferimento dell’isovaltina. Potter paragonò i due tracciati punto per punto, ordinò, «Via il nastro.» L’immagine di riferimento scomparve.
«Ciclo di Krebs a quarantasette,» lo informò l’infermiera.
Potter tirò un respiro profondo, un po’ tremulo. Altri ventisette punti e l’embrione dei Durant avrebbe rischiato di morire.
Deglutì, puntò il fascio di mesoni.
L’isovaltina venne vaporizzata.
«Pronto con la cicloserina,» lo avvertì Svengaard.
Ah, il buon vecchio Sven, pensò Potter. Non c’è bisogno di spiegargli volta per volta ciò che deve fare.
«Confronto su D-4-aminoisoxazolidone-2,» disse Potter.
L’infermiera addetta al computer preparò il nastro, disse, «Confronto pronto.»
L’immagine di riferimento comparve nel campo di visione di Potter. «Fatto,» disse. L’immagine svanì. «Uno virgola otto minimi.» Osservò l’interazione tra i vari gruppi enzimici mentre Svengaard somministrava la cicloserina. Il gruppo amino mostrava un ottimo campo aperto di affinità. L’RNA messaggero si adattava perfettamente ai suoi opercoli.
«Ciclo di Krebs trentotto virgola sei,» riferì l’addetta al computer.
Dovremo rischiare, pensò Potter. Questo embrione non tollererà ulteriori modifiche.
«Riducete della metà la stasi,» ordinò. «Aumentare l’ATP. Dieci minimi di acido piruvico.»
«Stasi in diminuzione,» disse Svengaard. E pensò, Ci siamo vicini. Premette i pulsanti dell’ATP e dell’acido piruvico.
«Datemi il ciclo di Krebs a intervalli di mezzo punto,» disse Potter.
«Trentacinque,» lesse l’infermiera. «Trentaquattro virgola cinque. Trentaquattro. Trentatré virgola cinque.» La sua voce iniziò ad acquisire un tono incalzante, teso: «Trentatré… trentadue… trentuno… trenta… ventinove…»
«Interrompete la stasi,» disse Potter. «Mostratemi lo spettro completo di aminoacidi con istidina attivata. Incominciate a somministare pirodossina — quattro virgola due minimi.»
Le mani di Svengaard volarono sui pulsanti.
«Utilizzare di nuovo il nastro delle proteine,» ordinò Potter. «Registrare lo schema del DNA utilizzando i dispositivi automatici del computer.»
I nastri frusciarono sulle bobine.
«Sta rallentando,» commentò Svengaard.
«Ventidue,» stava annunciando l’addetta al computer. «Ventuno e nove… ventidue… ventuno e nove… ventidue e uno… ventidue e due… ventidue e uno… ventidue e due… ventidue e tre… ventidue e quattro… ventidue e cinque… ventidue e sei… ventidue e cinque.»
Potter assisteva con trepidazione a quella lotta dall’esito incerto. La morula era vicinissima alla morte. Nei minuti seguenti avrebbe potuto sopravvivere o soccombere. Oppure venire menomata. Cose del genere succedevano. Quando il danno subito era troppo grave, la vasca veniva spenta, e il suo contenuto gettato via. Ma Potter ormai si era identificato con quell’embrione. Sentiva di non poterlo perdere.
«Desensibilizzatore mutagene,» disse.
Svengaard esitò. Il ciclo di Krebs seguiva una lenta curva sinuosidale che tendeva pericolosamente a valori a cui l’embrione sarebbe morto. Sapeva perché Potter aveva preso quella decisione, ma bisognava anche tener conto che quella decisione avrebbe potuto generare nell’embrione una tendenza a contrarre tumori. Si chiese se avrebbe dovuto tentare di persuadere Potter a desistere. Meno di quattro punti dividevano l’embrione dalla dissoluzione finale, dal nulla della morte. La somministrazione di mutageni poteva provocare una crescita rapidissima oppure distruggerlo. E anche se i mutageni avessero funzionato, l’embrione sarebbe stato vulnerabile a processi cancerosi.
«Desensibilizzatore mutagene!» ripeté Potter.
«Dosaggio?» chiese Svengaard.
«Mezzo minimo in frazioni. Ci penserò io a somministrarlo.»
Svengaard premette i tasti dell’apparecchio dispensatore, gli occhi fissi sul monitor che gli forniva i dati sul ciclo di Krebs. Non aveva mai udito che un simile, drastico procedimento fosse stato applicato ad un embrione tanto vicino alla morte. Di solito i mutageni venivano usati per embrioni parzialmente difettosi di Steri, una mossa che talvolta produceva effetti drammatici. Era come scuotere un secchio pieno di sabbia per pareggiare i grani. Eppure, qualche volta, il plasma germinale, stimolato dal mutagene, realizzava da solo un equilibrio migliore. Di tanto in tanto veniva prodotto addirittura qualche embrione fertile… ma mai un Optimate.