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«Parla, di’ ciò che vuoi,» gli ingiunse Calapine. «Io, Calapine, te lo ordino. Mostra rispetto e forse sarò misericordiosa.»

Harvey la fissò, ammutolito. Calapine sembrava ignara della baraonda sempre più violenta che si era scatenata nella Sala del Consiglio.

«Durant,» disse Glisson, «deve ricordare che esistono impulsi sotterranei chiamati istinti che dirigono le nostre esistenze come la corrente inesorabile di un fiume. Questo è ciò che chiamiamo cambiamento. Ora ci circonda. Il mutamento è l’unica costante.»

«Ma Calapine sta morendo,» fece notare Harvey.

Quest’ultima non riuscì a comprendere le sue parole, ma fu toccata dalla sfumatura di preoccupazione che percepì nella voce di Durant. Diede un’occhiata al braccialetto che la manteneva in collegamento con gli strumenti del Globo. Preoccupazione! Durant era preoccupato per lei, non per la sua vita o per la sua insignificante compagna!

Si girò, mentre veniva avvolta da una subitanea oscurità, e stramazzò al suolo, con le braccia spalancate verso le file di banchi.

Un risolino crudele sfuggì dalle labbra di Glisson.

«Dobbiamo fare qualcosa per loro,» disse Harvey. «Devono capire cosa stanno infliggendo a loro stessi!»

Improvvisamente, Schruille si riprese, guardò verso la parete opposta della sala, notò che molti dei sensori video, utilizzati dagli Optimati che non erano riusciti ad entrare nella sala, erano spenti. Poi venne allarmato dalla confusione di cui sembravano essere preda i suoi pari. Alcuni degli Optimati stavano andandosene; nel farlo barcollavano, correvano, ridevano…

Ma dovevamo interrogare i prigionieri, pensò Schruille.

Lentamente l’isteria che aveva invaso la sala si impresse sui sensi di Schruille, che guardò Nourse.

Nourse sedeva con gli occhi chiusi, borbottando tra sé e sé. «Olio bollente,» disse poi. «Ma è un sistema troppo rapido. Abbiamo bisogno di una tortura più raffinata, che duri più a lungo.»

Schruille si tese in avanti. «Voglio rivolgere una domanda all’uomo chiamato Harvey Durant.»

«Cosa?» sbottò Nourse. Aprì gli occhi, si sporse in avanti, poi si rilassò.

«La domanda è: cosa sperava di guadagnare dalle sue azioni?» chiese Schruille.

«Molto bene,» approvò Nourse. «Rispondi alla domanda, Harvey Durant.»

Nourse toccò il proprio braccialetto. Il raggio purpureo si avvicinò di un paio di centimetri ai prigionieri.

«Non volevo che moriste,» spiegò Durant. «Assolutamente.»

«Rispondi alla domanda!» latrò Schruille.

Harvey deglutì a vuoto. «Volevo…»

«Volevamo formare una famiglia,» intervenne Lizbeth. Parlò con voce chiara, tranquilla. «Ecco tutto. Volevamo una famiglia.» Iniziò a piangere e si chiese a chi sarebbe assomigliato loro figlio. Senza dubbio nessuno di loro sarebbe sopravvissuto a quella follia.

«Cosa?» si stupì Schruille. «Ma cosa sono queste sciocchezze su una famiglia?»

«Dove avete preso l’altro embrione?» chiese Nourse. «Rispondete e forse ci dimostreremo misericordiosi.» La luce bruciante si avvicinò ancora un po’ ai cinque prigionieri.

«Abbiamo a disposizione degli individui fertili e immuni al gas contraccettivo,» rispose Glisson. «Sono molti.»

«Avete sentito?» esclamò trionfante Schruille. «Ve l’avevo detto.»

«Dove sono?» chiese Nourse. Si accorse che gli tremava la mano destra, la fissò sorpreso.

«Proprio sotto il vostro naso,» replicò Glisson. «Sono mimetizzati tra la popolazione. E non chiedetemi di fornirvi i loro nomi. Non li conosco tutti. Nessuno li conosce.»

«Non ce ne sfuggirà nessuno,» promise Schruille.

«Nessuno!» gli fece eco Nourse.

«Se vi saremo costretti,» annunciò Schruille, «sterilizzeremo tutta la Terra, tranne la Centrale, e ricominceremo da capo.»

«Con che cosa?» ribatté acidamente Glisson.

«Che vuoi dire?» Schruille quasi gridò quella domanda.

«Dove troverete il genoma umano necessario per ricominciare?» chiese Glisson. «Siete sterili, e state per morire.»

«Ci basta di una sola cellula per duplicare l’organismo originale,» gli ricordò Schruille in tono sardonico.

«E allora perché non avete clonato voi stessi?» ribatté Glisson.

«Tu osi rivolgerci delle domande?» trasecolò Nourse.

«Benissimo, allora risponderò io al vostro posto,» disse Glisson. «Avete rinunciato alla clonazione perché è un processo gravido di rischi. I cloni sono instabili, votati all’estinzione.»

Calapine udì soltanto delle parole sconnesse, «Sterili… morire… instabili… estinzione…» Quelle parole terribili si insinuarono nella sua coscienza, occupata a osservare una sfilata di grosse salsicce luminescenti. Erano come semi avvolti da un’aura luminosa che si muovessero contro uno sfondo di velluto di un nero oleoso. Salsicce. Semi. Ma poi li vide non proprio come semi, ma piuttosto come vite incapsulate — avvolte in un bozzolo, protette per affrontare un periodo non favorevole al loro sbocciare. Quel pensiero le rese i semi meno disgustosi. Dopo tutto, erano vita… sempre vita.

«Non abbiamo bisogno del genoma,» dichiarò Schruille.

Calapine udì distintamente quell’affermazione, sentì di essere in grado di leggere i pensieri di Schruille. Le parole di una delle salsicce si impressero sulla sua coscienza: Qui, nella Centrale, siamo milioni. Siamo in numero più che sufficiente. La Gente, la cui vita è breve e futile, è solo un disgustoso relitto del nostro passato. Sono i nostri animali domestici, e noi ora non ne abbiamo più bisogno.

«Ho deciso cosa ne faremo di questi criminali,» disse Nourse. Parlò a voce alta, per farsi udire al di sopra del frastuono sempre più assordante. «Applicheremo loro una stimolazione nervosa, un micron per volta. La loro sofferenza sarà squisita e potrà protrarsi per secoli.»

«Ma avevi detto che non volevi usare la violenza,» gli ricordò Schruille.

«Davvero?» chiese Nourse con voce preoccupata.

Non mi sento bene, pensò Calapine. Ho bisogno di andare in Farmacia. In Farmacia. Quella parola agì da interruttore, riportandola alla piena coscienza. Si accorse di essere sdraiata a terra, di avere il naso dolorante per la caduta, e umido di una qualche sostanza.

«In ogni caso, il tuo suggerimento è notevole,» disse Schruille. «Potremmo ricostruire i loro sistemi nervosi ogni volta, e continuare a punirli per sempre. Un’eterna, squisita sofferenza!»

«Un vero inferno,» gongolò Nourse. «Una punizione appropriata.»

«Sono abbastanza pazzi da farlo sul serio,» gracchiò Svengaard. «Come faremo a impedirglielo?»

«Glisson!» esclamò Lizbeth. «Faccia qualcosa!»

Ma il Cyborg rimase in silenzio.

«Questo non l’aveva previsto, eh, Glisson?» commentò amaramente Svengaard.

Ancora una volta il Cyborg non pronunciò parola.

«Mi risponda!» annaspò Svengaard.

«Il piano era che morissero,» disse Glisson con voce priva di ogni emozione.

«Ma adesso magari sterilizzeranno davvero tutta la Terra, salvo la Centrale, e potranno indulgere nella loro follia in perfetta solitudine,» disse Svengaard. «E noi potremmo essere torturati per sempre!»

«Non per sempre,» lo corresse Glisson. «Stanno morendo.»

Applausi fragorosi scoppiarono verso il fondo della sala. Nessuno dei prigionieri poté girarsi per osservarne la causa, ma quel suono conferì maggiore frenesia a un’atmosfera già caotica.

Calapine si alzò dal pavimento. Il naso e la bocca le pulsavano dolorosamente. Si girò verso la piattaforma, osservò il tumulto alle spalle della macchina. Gli Optimati erano saliti sui banchi per osservare una qualche attività nascosta dalla loro stessa calca. Improvvisamente un corpo nudo fu scagliato al di sopra della folla, roteò nell’aria per poi ricadere con un tonfo orribile. Ancora una volta un applauso fragoroso scosse la sala.

Cosa stanno facendo? si chiese Calapine. Si stanno facendo del male — reciprocamente.

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