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«Qualche volta la Gente sa essere così disgustosa,» si stupì Calapine.

«Non può essere,» obiettò Svengaard con un tono di voce indecifrabile che stupì Lizbeth; la voce era priva di quella disperazione che lei si sarebbe aspettata.

«Ho detto che sono disgustosi!» sbottò Calapine. «Nessuno stupido farmacista dovrebbe avere l’ardire di contraddirmi.»

Boumour riemerse dal suo stato di apatia. Il computer all’interno del suo corpo, la cui logica era ancora aliena per Boumour, aveva registrato e analizzato la conversazione, ricavandone conclusioni significative. Sollevò lo sguardo, e sebbene fosse ancora incompleto come Cyborg, rilevò dalla carne degli Optimati i segni quasi impercettibili che la sua ipotesi era esatta. Era vero! C’era qualcosa che non andava negli immortali. La sorpresa colmò l’animo di Boumour di una vaga sensazione di perdita, come se avesse dovuto manifestare una qualche emozione che non era più in grado di provare.

«Le loro parole,» disse Nourse. «Per me, sono quasi del tutto privo di significato. Cosa stanno dicendo, Schruille?»

«Adesso interroghiamoli sui Fertili,» li esortò Calapine. «E sull’embrione che hanno sostituito a quello dei Durant. È importantissimo.»

«Guardate là, nella fila più in alto,» disse Glisson. «Quell’Optimate alto. Vedete le rughe sul suo viso?»

«Sembra così vecchio,» sussurrò Lizbeth. Stranamente, si sentiva svuotata. Fino a quando fossero esistiti gli Optimati — immutabili, eterni — anche il suo mondo avrebbe poggiato su di un pilastro altrettanto saldo. Anche se si era opposta al loro dominio, Lizbeth aveva sempre avuto quella sensazione. I Cyborg morivano… alla fine. La Gente moriva. Ma gli Optimati continuavano a vivere… per sempre.

«Come è possibile? Che cosa sta succedendo agli Optimati?» chiese Svengaard.

«La seconda fila sulla sinistra,» disse Glisson. «La donna dai capelli rossi. Vedete le occhiaie, lo sguardo vacuo?»

Boumour mosse gli occhi per vederla. Questo gli bastò per constatare la verità delle parole di Glisson.

«Cosa stanno dicendo?» domandò Calapine. «Cos’è questo?» Parlò in tono querulo, perfino alle proprie orecchie. Si sentiva inquieta, afflitta da dolori di cui non avrebbe saputo spiegare la causa.

Un brusio di scontento si alzò dai banchi della sala. Inframmezzate a esso, si poterono udire risatine, esclamazioni di rabbia, risate sguaiate.

Dovevamo interrogare questi criminali, pensò Calapine. Quando cominceremo? Devo essere io a iniziare?

Fissò Schruille, che si era afflosciato sullo scranno e rivolgeva uno sguardo carico d’odio su Harvey Durant. Poi si voltò verso Nourse, notò il suo sorrisetto di superiorità, l’espressione remota dei suoi occhi. Una vena pulsava nel collo di Nourse — non l’aveva mai notata prima; su una guancia spiccava un groviglio di venuzze vermiglie.

Lasciano che sia io a occuparmi della faccenda, pensò poi.

Con uno scatto nervoso delle spalle, toccò il ripetitore da polso. Una luce purpurea invase il globo che era stato spostato ad un lato della sala. Un raggio di luce scaturì dalla sommità della sfera e lambì il pavimento. Si allungò verso i prigionieri.

Schruille osservò la scena. Presto i cinque criminali si sarebbero trasformati in folli creature urlanti, e avrebbero confessato tutto ciò che sapevano agli analizzatori della Tuyere. La loro personalità sarebbe svanita, ridotta a una fascio di fibre nervose, da cui la luce ardente avrebbe assorbito ricordi, esperienze, conoscenze.

«Aspetta!» esclamò Nourse.

Studiò la luce. L’esclamazione aveva interrotto l’avvicinamento del raggio ai prigionieri. Sentiva che stavano commettendo un grosso errore di cui si era accorto soltanto lui, e si guardò intorno nella sala improvvisamente silenziosa, chiedendosi se qualcun altro avrebbe potuto dare un nome a quell’errore. In quel luogo si trovavano le tecnologie segrete su cui si basava il loro dominio, tutto era ordinato, programmato. Ma, in qualche modo, la casualità della Vita si era introdotta nella Sala. Era un errore.

«Perché stiamo aspettando?» chiese Calapine.

Nourse tentò di ricordarlo. Sapeva di essersi opposto all’interrogatorio. Perché?

La sofferenza!

«Non dobbiamo causare sofferenze,» affermò allora. «Dobbiamo dar loro la possibilità di confessare senza esservi costretti.»

«Sono impazziti,» sussurrò Lizbeth.

«E noi abbiamo vinto,» affermò Glisson. «Attraverso i miei occhi, tutti i Cyborg possono assistere alla nostra vittoria.»

«Ci distruggeranno,» gli ricordò Boumour.

«Ma avremo vinto lo stesso,» replicò Glisson.

«Come?» chiese Svengaard. E a voce più alta ripeté, «Come?»

«Potter ha funto da esca, e così abbiamo fatto loro assaporare il gusto della violenza,» spiegò Glisson. «Sapevamo che avrebbero abboccato. Dovevano farlo.»

«Perché?» sussurrò Svengaard.

«Perché abbiamo modificato le condizioni ambientali in cui vivevano,» rispose Glisson. «Piccole cose: un po’ di pressione qua, un inquietante Cyborg là. E abbiamo fatto loro provare il gusto della guerra.»

«Come?» insisté Svengaard. «Come?»

«Istinto,» replicò Glisson. Quella parola fu pronunciata in tono talmente deciso, che fu chiaro che era il risultato di una logica inumana da cui non c’era scampo. «Le guerra, per gli umani, fa parte del loro istinto. La battaglia. La violenza. Ma le menti degli Optimati hanno imparato a controllare quest’istinto — per migliaia di anni. Ah, il prezzo che hanno pagato: stagnazione, apatia, noia. Ora si sono trovati di fronte alla necessità di usare la violenza, ma la loro capacità di adattarsi si è atrofizzata. Di conseguenza, sono sottoposti a squilibri enzimici sempre più gravi, si stanno allontanando sempre più dallo stato di immortalità. Presto moriranno.»

«Guerra?» Svengaard aveva udito le storie su come gli Optimati preservassero la Gente dalla violenza. «Non può essere,» protestò. «Magari si tratta di una malattia sconosciuta o di…»

«Le mie conclusioni sono esatte, fino all’ultimo decimale,» replicò Glisson.

Calapine urlò, «Ma cosa stanno dicendo?»

Aveva udito perfettamente le parole dei prigionieri, ma il loro significato le sfuggiva. Stava pronunciando vere oscenità. La sua mente registrava una parola, poi quella successiva, ma non riusciva a stabilire un legame logico tra esse. Erano soltanto volgarità, della specie peggiore. Scosse Schruille per un braccio. «Cosa stanno dicendo?»

«Tra un istante li interrogheremo e lo sapremo,» rispose Schruille.

«Sì,» disse Calapine. «Voglio la verità.»

«Ma come è possibile?» sussurrò Svengaard. Vedeva una coppia che danzava tra i banchi. Altre coppie si abbracciavano, facevano l’amore. Alla sua destra, due Optimati presero a inveire uno contro l’altro — vicinissimi allo scontro fisico. Svengaard ebbe l’impressione di vedere edifici che crollavano, la terra fendersi e sputare fiamme.

«Li guardi!» incalzò Glisson.

«Ma perché non riescono ad adattarsi a questo… mutamento?» chiese Svengaard.

«La loro capacità di adattamento si è atrofizzata,» ripeté Glisson. «E lei deve rendersi conto che l’adattamento crea esso stesso nuove condizioni di vita, provoca oscillazioni comportamentali sempre più violente. Li guardi! Stanno perdendo il controllo.»

«Fateli tacere!» urlò Calapine. Balzò in piedi, avanzò verso i prigionieri.

Harvey osservò l’Optimate che si avvicinava. Era affascinato e terrorizzato nello stesso tempo. Calapine sembrava aver perso il controllo dei movimenti, di ogni reazione emotiva, tranne la rabbia. I suoi occhi, fissi su Harvey, sprizzavano furore. Un violento tremito le squassava il corpo.

«Tu!» esclamò Calapine, indicando Harvey. «Perché mi fissi così e borbotti? Rispondimi!»

Harvey rimase in silenzio, non a causa della rabbia dell’Optimate, ma per essersi improvvisamente reso conto dell’età di quella donna. Quanti anni aveva vissuto? Trentamila? Quarantamila? Oppure era una degli Optimati originali, e aveva più di ottantamila anni?

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