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— Non "puoi" — disse Lizzie al Vivo che appariva risentito. Jackson, che si trovava a settantacinque metri di distanza in un gabbiotto di appostamento di fronde di quercia che mostravano ancora le foglie avvizzite dell’anno precedente, guardava in uno zoom e ascoltava da un ricevitore della dimensione di un pisello. Osservò il volto di Lizzie lottare per non assumere un’espressione di disappunto. La ragazza mostrò il sorriso più cupo che lui avesse mai visto.

L’uomo, ancora più risentito, disse: — Shockey ha detto, lui, che posso.

— "Shockey" ha detto che puoi?

— Già.

— Aspetta soltanto un minuto — fece Lizzie. Si allontanò dall’uomo, che si trovava all’esterno dell’area di alimentazione della tribù, la solita tenda di plastica. Dentro, venti Vivi nudi consumavano il pranzo. A Jackson sembrò che, tutte le volte che controllava la tribù di Lizzie, finiva col guardare dei Vivi nudi che pranzavano. Quella volta, però, tre reporter Muli dotati di telecamere si trovavano fuori dal recinto completamente vestiti e filmavano il pasto. Altre robocamere si libravano all’interno. Quel gruppo di Vivi, a differenza di altre tribù della Contea di Willoughby, stava godendo di un momento di notorietà temporanea. Jackson notò che due donne portavano fermagli d’oro sui capelli. Un’altra, vide improvvisamente, indossava una collana con una pietra che, ingrandita dallo zoom, appariva come un diamante. Altri guai.

Lizzie si avvicinò a Jackson, travestito da Vivo. Durante le ultime tre settimane si era fatto crescere una barba incolta. Indossava pantaloni larghi e azzurri, un cappello malconcio calzato sulla fronte e gli stivali più pesanti che avesse mai avuto in vita sua. Il terreno era un mare di fango: aveva piovuto per due giorni di fila, una pioggia di marzo tardiva e sferzante che minacciava di riprendere a cadere. Gli stivali di Jackson erano appesantiti di fango. Aveva accompagnato Lizzie a piedi attraverso una montagna fino a quella tribù: i Vivi non utilizzavano aeromobili, e lui era in incognito come Vivo. Al momento, nessuno dei numerosi reporter lo aveva notato. Si sentiva ridicolo.

Lizzie gli si sporse vicino, disperata, e sussurrò: — Dice che è stato "Shockey" a dirgli che potevano accettare gli scooter!

— Be’, pensi che Shockey gliel’abbia detto sul serio? — chiese Jackson. Secondo lui sì. Shockey sembrava non avere afferrato l’idea di Lizzie che, se i Vivi erano intenzionati a votare per il loro candidato il primo aprile, non potevano accettare doni o denaro dagli altri due candidati il 25 marzo. — Risarcimenti — li aveva chiamati Shockey, e dove diavolo aveva imparato quella parola? — Bustarelle — diceva Lizzie, e aveva ragione.

Lizzie si mordicchiò il labbro inferiore. — Harry Jenner dice che Shockey gli ha detto di accettare i regali, di non fare vere e proprie promesse e poi di votare comunque per lui.

Era quello il modo in cui i Muli avevano gestito le cose per decenni. Jackson lo disse a Lizzie.

— Ma "non è giusto" — ribatté Lizzie, improvvisamente impaziente. Per lei, coinvolta in quella rivoluzione legale innocente e destinata a fallire. Anche per lui, nascosto lì in piedi all’ombra degli alberi che non ne offrivano molta perché era soltanto marzo, che si sentiva prudere tutto con quella tuta sintetica non traspirante macchiata di fango montano.

— La cosa importante è se Harry e la sua tribù voteranno davvero per Shockey dopo avere accettato scooter, vestiti alla moda, saponi profumati e collane di diamanti — disse lui. — Non voteranno piuttosto per un candidato che ha donato loro tutto questo bottino?

— Collane di diamanti? — chiese Lizzie, allibita.

— La ragazza più vicina alla plastica, quella con i capelli lunghi e scuri, ha addosso una collana di diamanti. Credo che sia di Tiffany.

— Oh, santo Iddio!

Jackson sorrise. Lizzie sarebbe rimasta male se avesse saputo che nei momenti di stress, anche se non parlava da Viva, sembrava proprio sua madre, la formidabile Annie. Jackson non glielo disse. Durante gli ultimi tre mesi, occupandosi marginalmente di quella ridicola campagna elettorale, aveva cominciato a stimare Lizzie. La ragazza era una strana combinazione di durezza e vulnerabilità. A volte, gli rammentava perfino Theresa.

Ma quello non era un motivo sufficiente per essersi lasciato coinvolgere in quel progetto donchisciottesco. E allora perché lo aveva fatto?

— Ascolta, Lizzie. Mancano sei giorni alle elezioni. Dovrai fidarti semplicemente del fatto che Harry Jenner e il resto di loro voteranno per Shockey nonostante i… regali. — Regali. Bustarelle. Ricompense.

— Lei pensa "davvero" che voteranno per Shockey? — I suoi occhi neri lo stavano implorando.

— A dire il vero sì — rispose lui lentamente. — Penso che l’odio rimasto dalle Guerre del Cambiamento sia più forte dell’avidità dei Vivi. — O della gratitudine dei Vivi. I Vivi erano esattamente gli opportunisti che i Muli avevano plasmato.

— È quello che dice anche Vicki — commentò Lizzie.

Jackson non voleva parlare di Vicki. Lei era rimasta indietro per mantenere il più possibile l’ordine nel "quartier generale elettorale", e faceva talmente parte della tribù di Shockey da non essere costretta a restare lì nel fango, travestita da qualcosa che non era. "Non abbiamo bisogno dell’effetto negativo della tua presenza esplicita" aveva detto a Jackson "e tu non hai alcun bisogno di un effetto negativo sulla tua, ehm, carriera medica." Già. Giusto.

— D’accordo — capitolò Lizzie. — Non dirò loro di restituire gli scooter e gli altri oggetti. Ma dirò nuovamente loro quanto hanno bisogno di votare per Shockey!

— Be’, fallo subito, allora. Quel reporter sta ricominciando a guardarti con interesse. E sta guardando anche me.

— Ci rivediamo all’accampamento.

— Bene — concluse Jackson e riprese ad arrancare attraverso i boschi.

Dopo qualche chilometro, sentì abbastanza caldo da aprire la giacca e poi da toglierla. Tenne in testa il cappello: molti giornalisti privi di notizie migliori da seguire avevano utilizzato aeromobili e telecamere dotate di zoom per filmare quella campagna elettorale. Essa rappresentava, secondo il canale dei notiziari, un insulto al buon senso, una minaccia a quello che restava dell’ordine civile, un’insignificante nota a piè di pagina della storia politica oppure una barzelletta cosmica. A volte, tutte quelle cose insieme.

Perfino per Susannah Wells Livingston e Donald Thomas Serrano. La settimana precedente Jackson, spia in campo nemico, aveva partecipato a una festa per la raccolta di fondi a favore di Don Serrano. Aveva scoperto che il candidato Mulo non era realmente preoccupato. — Ho dispensato in giro ogni genere di "benefit" al mio elettorato — gli aveva confidato Serrano. — Da quando in qua non si può comperare un Vivo? — Jackson si era limitato ad annuire. Non era esattamente quello che aveva creduto anche lui, finché Lizzie Francy non era precipitata nella sua vita da due metri e mezzo di altezza dalla parete di una fabbrica?

L’elezione, comunque, non era una barzelletta cosmica per Cazie. Per evitarla, Jackson aveva traslocato temporaneamente dal suo appartamento e, usando un altro nome, si era sistemato in un albergo nella enclave di Pittsburgh. Non un albergo di lusso, quel luogo ospitava soprattutto tecnici, i Muli al limite della loro classe sociale i cui genitori avevano potuto acquistare soltanto modificazioni genetiche parziali, di solito di tipo estetico. I tecnici lavoravano per mantenersi e raramente possedevano un’impresa. Jackson si muoveva fra loro con una certa disinvoltura. Parlava quotidianamente con Theresa, l’unica persona che avesse il suo indirizzo, su una linea di comunicazione che sperava sufficientemente schermata. Che Cazie non riuscisse a trovarlo dava a Jackson una strana soddisfazione, forte come sapere che lei lo stava cercando.

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