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— Quello che facciamo non sono fatti suoi — ribatté Jennifer mentre Beshir diceva infuriato a Will: — Controlli sua moglie!

— Lei parla sempre alla prima persona plurale, Madame Sharifi? — chiese Strukov. — Che forma di diffusione del virus gradirebbe avere? E a quale scadenza?

— Due modi diversi di diffusione. Uno sviluppato e testato non appena possibile, l’altro a un mese di distanza.

— E i due modi di diffusione sarebbero?

Lei glieli indicò.

6

Jackson si svegliò con l’assoluta convinzione che qualcuno si stesse muovendo in camera sua, al buio.

Un sogno? No. L’intruso era reale e non un robot. Un’indistinta sagoma umana attraverso la stanza, passava brevemente davanti alla finestra semioscurata. Theresa? Non entrava in camera sua di notte e, se lo avesse fatto, avrebbe acceso la luce.

Giacque immobile, simulando il respiro profondo del sonno, e rifletté sulle opzioni che aveva. Poteva chiamare il servizio di sicurezza dell’edificio. Ma il neurofarmaco rilasciato non avrebbe avuto effetto prima che l’intruso sparasse a Jackson, sentendo il suono della sua voce. Poteva rotolare giù dal letto, tenendolo fra sé e la finestra, e poi cercare di raggiungere lo scudo di sicurezza personale che teneva nel cassetto inferiore del comodino. Oppure era nel secondo? Si immaginò ad armeggiare, nudo, in mezzo alle calze e alle mutande alla ricerca del piccolo aggeggio mentre l’intruso aspettava cortesemente. Già, certo. Poteva balzare dal letto e tentare di stendere l’intruso, contando sull’effetto sorpresa per impedirgli di sparare.

Nei secondi che gli occorsero per decidere, l’intruso disse: — Accendere luci — e la stanza si illuminò. — Salve Jackson, tesoro — salutò Cazie.

Era nuda e ricoperta di fango. Era incrostato sul pube, spalmato sul seno sodo e ricadeva in pezzi umidi sul tappeto bianco della stanza. Jackson sentì immediatamente il pene irrigidirsi. Bella figura da idiota avrebbe fatto se avesse chiamato la sicurezza.

— Dio, maledizione Cazie, che diavolo credevi di fare?

— Ti piacerà moltissimo quello che farò, Jack. Andiamo a una festa. Sono venuta via soltanto per venirti a prendere.

Si avvicinò al letto e lui riuscì a vedere gli occhi dalle pagliuzze verdi. Era sotto l’effetto di qualcosa di maledettamente più forte dell’Endorbacio. Lei si accorse del volto accigliato di lui e gli allungò l’inalatore. — Vuoi un tiro?

— No!

— Allora andiamo alla festa. — Lei gli strappò di dosso la coperta. Il fango che aveva sulle mani macchiò il tessuto non consumabile. — Oh, guarda, sei già bello e pronto! Sei sempre riuscito a diventare subito duro, Jack. Mi piace. Vieni, andiamo. Ci stanno aspettando.

Lui le strappò di nuovo la coperta e si sentì un idiota. — Io non vado da nessuna parte.

— Oh, sì, invece — miagolò lei. Lasciò la coperta della disputa e gli si gettò addosso, baciandolo furiosamente.

Lui non poté resistere. Strinse le braccia attorno al suo corpo facendole penetrare subito la lingua nella bocca aperta. Sentì il pene pronto a esplodere. Cazie scoppiò a ridere, la bocca ancora su quella di lui, e lo allontanò: era più forte di quanto ricordasse. Goffamente, ridendo ancora, rotolò giù dal letto e si avviò alla porta.

— Non qui, Jack. Vieni, non vorrai perderti la festa.

— Cazie! Aspetta! — La sentì correre con delicatezza attraverso l’appartamento e dire al portone di ingresso di aprirsi. Jackson afferrò un paio di pantaloni e li infilò. Le corse dietro, a piedi e a torso nudi, sperando di non svegliare Theresa. Cazie era scomparsa. Jackson spalancò la porta di casa.

— Buona serata, dottor Aranow — gli disse la porta. — Devo cancellare la sveglia per domani mattina?

— Sì — disse Jackson. — No. Cazie!

Lei si era già infilata nell’ascensore che si era chiuso. Mentre lui la guardava impotente, la porta si riaprì. Lei era in piedi lì, nuda, infangata e sorridente, e stava abbassando l’inalatore. — Dai, vieni, Jackson. L’acqua è magnifica.

— Devo aspettare, dottor Aranow? — chiese l’ascensore. — O intende rimanere a questo piano?

Jackson entrò in ascensore. Cazie scoppiò a ridere. — Sesto piano, per favore.

— Cazie, sei nuda!

— Tu invece no. Ma si può rimediare. Non è una gran fortuna che la festa si tenga proprio nel tuo condominio? — Allungò una mano, la serrò sulla parte superiore dei suoi pantaloni e lo attirò a sé. Sganciò l’unico fermaglio che lui era riuscito a chiudere quando l’ascensore di bloccò e la porta si aprì.

— Sesto piano, signora Sanders — disse l’ascensore. — Buona serata!

— "Cazie…"

— Forza, Jack! Siamo in ritardo! — Corse lungo il corridoio, dispensando fango. Imprecando, Jackson la seguì.

Doveva tornare a casa immediatamente.

Le natiche di lei, macchiate di fango, si muovevano in alternanza, "destra sinistra destra sinistra". Aveva il sedere sodo ma non tanto da impedire che ballonzolasse un po’ mentre correva. Jackson la seguì.

La festa era da Terry Amory. Jackson conosceva Terry, ma non bene. La porta era aperta. Cazie lo condusse attraverso un arredamento minimalista pseudoasiatico fino alla sala da pranzo. — È arrivato! Diamo inizio ai giochi!

— Appena in tempo — biascicò Terry. — Stavamo per iniziare senza di voi. Salve, Jackson. Benvenuto alla psicobanca.

Sei persone nude, tre uomini e tre donne, stavano oziando in una zona di alimentazione della dimensione della camera da letto di Jackson. Nell’humus organico mischiato secondo i gusti personali era stata versata dell’acqua: il fango che ne risultava era spesso, ricco e delicatamente profumato. Il programma della parete mostrava colori tipici della terra, grigi, marrone e ocra, che si dissolvevano riformando disegni da caverna. Dal soffitto pendevano stalattiti… probabilmente olografiche. Due donne erano sdraiate in atteggiamento disinvolto sopra uno degli uomini; Jackson si accorse che era Landau Carson: quella sera però non indossava api. Landau e Terry erano le uniche due persone che Jackson riconobbe.

La donna che non era stesa su Landau, una rossa slanciata e alta dai brillanti occhi azzurri, disse a Jackson: — Be’, togliti i pantaloni, caro. Non hanno un aspetto molto commestibile.

Jackson prese in considerazione l’ipotesi di andare via. Cazie, però, respirò un’altra boccata di qualsiasi sostanza le stesse strapazzando il cervello. Quella piccola pazza. Sapeva almeno cosa c’era nell’inalatore? Non sapeva che si trovavano droghe, in commercio, che causavano danni permanenti al cervello, alterando i tracciati neurali prima ancora che il Depuratore Cellulare avesse l’opportunità di distruggerle?

— Dammi l’inalatore, Cazie.

Con sua grande sorpresa, lei lo fece, consegnandoglielo con atteggiamento mite. Quando lui allungò la mano per prenderlo, lei lo spinse nel terreno di alimentazione.

Jackson provò un’ondata di furia. Che quella pazza si distruggesse pure il cervello. Che si scopasse ognuno di quei dementi, di tutt’e due i sessi. Era malata, aveva una sanità mentale inferiore a quella di Theresa e con molte meno ragioni. Che andasse all’inferno. Si trascinò in piedi per andarsene quando vide i coltelli.

Erano dodici, infilati ordinatamente in riga a punta in giù su un apposito supporto. Le else erano tutte di forma differente, ornate di crudeli animali intagliati che facevano eco ai dipinti da caverna del programma per la parete. Coltelli da lancio ma non ben equilibrati. Deliberatamente.

— Ho io la pittura — disse la rossa. Dette una sniffata all’inalatore. — Chi è il primo?

— Prima i neofiti — propose Cazie. — Prima io e poi Jackson.

— Ecco qui — cantilenò Terry. — Lascia che ti assista, come disse il Cro-Magnon al Neanderthal. Ummmm, bene. — Infilò una mano nel vaso e passò la pittura del colore del sangue seccato sui capezzoli di Cazie. Quindi, liberamente, sulla peluria macchiata di fango in mezzo alle sue cosce. Cazie sorrise.

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