— Sì, grazie — fece Jackson. Al suo fianco, Vicki restò in silenzio. Jackson la prese per mano. — Voglio anche qualcosa per la mia… amica. Anche se lei aspetterà nella suite.
— Ovviamente — concesse Rogers. Aveva un aspetto più felice. Si era liberato di Vicki. Jackson riuscì quasi a leggere nel pensiero di Rogers: "Non è di mio gusto ma deve essere abbastanza carina sotto i vestiti e a Jackson sono sempre piaciute le donne un po’ acide, dopo tutto, ha sposato Cazie Sanders". Vicki, pietosamente, non disse nulla finché l’ologramma della receptionist non li ebbe portati in una sala riunioni appartata con una camera da letto con bagno, dietro a una porta discreta.
— Non è nella zona protetta dalle armi chimiche in cui si trovava Rogers — commentò lei, aprendo a caso gli armadi. All’interno erano appesi sia abiti da ufficio, sia accappatoi. — Quanto ci facciamo che Rogers parteciperà alla riunione soltanto via ologramma?
— Potrebbe essere.
— Comunque questa suite è abbastanza carina. — Si strinse a Jackson e gli sussurrò così piano che nessuna spia acustica avrebbe potuto captarla: — Cos’hai intenzione di fare?
Non importava se non scorgeva le telecamere: c’erano di sicuro. Lui l’abbracciò e le sussurrò a sua volta: — Lasciamo che Cazie investa dei fondi.
— Perché?
— È l’unico modo per essere al corrente di quello che fanno.
Lei annuì contro la spalla di lui. Lo turbava tenerla fra le braccia. Non dava la stessa sensazione di Cazie: era più alta, meno arrotondata, aveva una pelle più fredda, aveva un odore diverso. Jackson ebbe un’erezione.
Lasciò Vicki e si voltò, fingendosi indaffarato nell’esaminare gli abiti dell’armadio. Quando si girò nuovamente, si aspettava di vederla sorridere in modo sardonico, pronta a un commento tagliente. Non fu così. La donna era in piedi, afflitta, al centro della stanza e il suo volto si era addolcito in un’espressione che chiunque altro avrebbe definito malinconica.
— Vicki…?
— Sì, Jackson? — Lei sollevò lo sguardo e lui notò sbalordito che era carico di bisogno.
— Vicki… io…
La sua unità mobile disse: — Tempesta lunare da Theresa Aranow. Ripeto. Tempesta lunare da Theresa Aranow.
"Tempesta lunare" era il codice di famiglia, rimasto invariato dall’infanzia, per una chiamata della massima urgenza. Theresa non l’aveva mai usato prima. Jackson attivò l’unità. Apparve l’immagine di lei, in una specie di piccola cabina aperta. Sembrava un aereo. Era impossibile. Theresa non sapeva pilotare aerei.
— J-Jackson! — boccheggiò lei. — Sono morti!
— Chi? Chi è morto, Theresa?
— Tutti quelli a La Solana! Richard Sharifi! — All’improvviso, Theresa si ricompose. — Richard Sharifi. Lui era nella tenuta, quanto meno c’era ancora la sua immagine registrata… La Solana…
Alle sue spalle, Vicki ordinò brusca: — Attivare terminale! Notiziari! Canale 35! — Si accese subito uno schermo a parete.
— …deflagrazione nucleare a La Solana, la tenuta dagli scudi massicci del Nuovo Messico, dimora del padre di Miranda Sharifi, Richard Keller Sharifi. Nessun gruppo ha rivendicato l’attentato che viola i trattati nazionali e internazionali sull’uso delle armi nucleari. La Casa Bianca ha emesso una dichiarazione di sdegno, e ha disposto l’invio immediato da parte del Pentagono di robot della difesa programmati per un’attenta analisi delle scorie radioattive in cerca di indizi che portino all’identificazione della composizione, dell’origine o del vettore della bomba. Lo scudo a energia attorno a La Solana era stato sviluppato da…
— Sto tornando a casa, Jackson — annunciò Theresa.
— Tess, aspetta, sembri strana, non sembri tu…
— Non lo sono — rispose Theresa. Spalancò gli occhi e per un momento "sorrise". Era la cosa più sconcertante che Jackson avesse visto in quella sconcertante giornata.
Theresa aggiunse con una voce che non sembrava completamente sua: — Il pilota ha detto che abbiamo preso duecentoquaranta rad. — A quel punto lo schermo si spense.
— Gesù Cristo — disse piano Vicki. — Sarà sufficiente a ucciderla?
— Forse no, ma starà malissimo. Devo andare.
— E Cazie?
— Che vada al diavolo — sbottò Jackson e vide Vicki sorridere, rendendosi conto, proprio come Vicki, che non parlava sul serio. Forse, però, un giorno sarebbe stato così. Nel frattempo, Cazie avrebbe investito un forte capitale senza il consenso suo o di Theresa. Il che, quanto meno, era meglio di niente.
Anche se non era abbastanza.
16
Quando Lizzie si svegliò, Vicki non era ancora tornata.
Era facile sapere chi si trovava nell’accampamento e chi no. Tutti si raggruppavano nello stesso momento per la colazione sotto la tenda del campo di alimentazione e tutti giacevano o sedevano nello stesso posto. Alcuni, Norma Kroll, Nonna Seifert, Sam Webster… si mettevano perfino nella stessa posizione. Un giorno dopo l’altro. Nella tribù si parlava piano mentre ci si nutriva e poi tutti lasciavano il terreno di alimentazione nello stesso ordine, accingendosi alle stesse faccende: recuperare suolo nuovo con nutrienti non sfruttati; ripulire l’edificio; occuparsi dei bambini che giocavano agli stessi giochi negli stessi luoghi; creare oggetti di legno o di stoffa oppure recuperare il legno dalla foresta e la stoffa dal robot tessitore. Un giorno dopo l’altro.
Pranzo alla stessa ora, negli stessi posti.
Fare appisolare i bambini, eseguire lavoretti, guardare ologrammi, prendere acqua, giocare a carte o fare ginnastica. Cena negli stessi posti, sotto la tenda. Gli stessi racconti alla sera, quando l’aprile insolitamente freddo costringeva a restare all’interno. Sarebbero rimasti dentro anche in giugno o in agosto vista la routine di aprile?
— Non lo sopporto più — aveva detto Lizzie a sua madre. Annie le aveva risposto: — Sei sempre stata troppo impaziente, tu. Goditi il tempo, Lizzie. Tutto è sicuro e tranquillo. Non vuoi pace, tu, per il tuo bambino?
— Non così! — aveva gridato Lizzie, ma Annie aveva solo scosso la testa ed era tornata all’arazzo che stava preparando con stoffa tessuta, sassolini e fiori secchi. Quando fosse finito, pensò Lizzie con disperazione, ne avrebbe iniziato un altro. Alle dieci lei e Billy sarebbero andati a letto perché quello era il loro orario. Probabilmente facevano l’amore le stesse sere ogni settimana. Di certo era quello che facevano Shockey e Sharon nel loculo accanto al suo. Martedì e sabato sera e domenica pomeriggio.
Quando c’era stata Vicki nell’accampamento, quanto meno, lei aveva avuto qualcuno con cui parlare. Vicki era tesa, agitata, frustrata, imprevedibile. Vicki era vera. Camminava sui sentieri dei boschi, col fango attaccato agli stivali, parlando delle proprie paure e della propria speranza. A volte a Lizzie sembrava che Vicki non fosse in grado di distinguere le une dall’altra.
— Dobbiamo aspettare Jackson — aveva detto Vicki, picchiando un pugno sul palmo dell’altra mano. — Per quanto mi secchi, lui e il detestabile suo amico ricercatore, Thurmond Rogers, sono la sola via per andare alle radici mediche del problema, Lizzie. Si tratta di un problema medico e può essere combattuto meglio con un modello medico. Non so come, la chimica del cervello si è modificata e noi…
— Aspetta — aveva detto Lizzie. — "Aspetta!"
Vicki l’aveva guardata.
— Non è soltanto un problema medico, lui. — Sentiva il proprio linguaggio scivolare in quello dei Vivi e le dava un fastidio d’inferno. Non avrebbe mai imparato? — È anche una questione politica. "Qualcuno" lo sta facendo! Non è successo spontaneamente!
— Già è ovvio, hai ragione. Ma non possiamo agire direttamente sulla causa. Ci abbiamo provato con le elezioni, ricordi? Il massimo che possiamo sperare è riuscire a manipolare i risultati. Forza Jackson… "chiama!"
E apparentemente, alla fine, Jackson doveva avere chiamato visto che Vicki era sparita. Era nella magnifica casa di Jackson a Manhattan Est? Alla Kelvin-Castner a Boston? Lizzie non lo sapeva.