Lei si accomodò sulla poltrona. — D’accordo. Vediamo di cominciare. — La frase suonò più rassegnata di quanto lei non avesse voluto.
— Spegnere luci — disse Drew. La camera nella tenuta del Nuovo Messico, riempita nei trascorsi sette mesi con mezzo milione di dollari di equipaggiamento teatrale, si oscurò. Leisha udì la carrozzella di Drew muoversi sul pavimento. Quando il proiettore olografico sul soffitto si accese, lui si trovava seduto direttamente sotto, con una console in grembo. Attorno a lui, nulla: né pavimento, né pareti, né soffitto, soltanto Drew, sospeso nell’oscurità vellutata di una normale proiezione del nulla.
Cominciò a parlare a voce bassa. Per un istante, tutto ciò che Leisha udì fu la voce stessa, calma e musicale: non si era mai resa conto che Drew avesse una voce così bella. In circostanze normali non lo si notava. Poi le parole cominciarono a penetrare. Poesia. Drew, Drew, stava recitando un antico poema, qualcosa su boschetti dorati che perdevano le foglie. Leisha sapeva di averlo sentito in precedenza, ma non riuscì a ricordarne l’autore. Era leggermente imbarazzata per Drew. Aveva una voce bella e tranquillizzante, ma recitare poesie su illustrazioni olografiche era la più giovanile delle forme artistiche che si potesse realizzare. Il suo cuore si serrò. Un altro passo falso, un altro fallimento.
Alcune forme nuotarono verso di lei, provenendo dalla oscurità.
Non erano proprio identificabili, eppure le riconobbe. Passarono sopra a Drew, dietro, davanti, perfino attraverso lui, mentre terminava il poema e ne ricominciava la lettura da capo. Lo stesso poema. Quanto meno, lei pensò che si trattasse dello stesso poema. Leisha non ne era più certa perché le risultava difficile concentrarsi sulle parole, non aveva mai apprezzato eccessivamente la poesia ma, anche se l’avesse fatto, avrebbe trovato difficile concentrarsi. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalle forme. Esse scivolavano dietro Drew, e lei cercava di seguirle con gli occhi, di scrutare attraverso lui per vederle, ma non vi riusciva. Lo sforzo era stancante. Quando le forme ondeggianti riemergevano dalle spalle di Drew, erano differenti. Lei si sporse in avanti per distinguere esattamente cosa fossero: le riconobbe.
Drew cominciò il poema per la terza volta. — "Perché, Margaret, sei afflitta per i dorati boschetti caduchi… "
Anche lei era afflitta, ma non per le foglie. Le forme scivolavano dentro e fuori dalla sua mente e, all’improvviso, Drew era sparito. Doveva essere bravo per aver programmato una cosa simile… e l’afflizione aumentò, riempiendola. Riconobbe una sagoma, alla fine: era suo padre. Roger. Stava nella vecchia serra della casa sul lago Michigan, la casa che era stata demolita ventisei anni prima. Stava tenendo in mano una pianta esotica, dai petali spessi e color bianco crema, con la parte centrale spruzzata di rosa, Lei emise un grido e lui le disse chiaramente: — Non hai fallito, Leisha. Non con il Rifugio, non nel cercare di rendere speciale anche Alice, non con Richard e non con la legge. L’unico fallimento è non usare le proprie capacità individuali, e tu le hai usate. Per tutta la vita. Hai tentato.
Leisha emise un piccolo grido e si alzò dalla poltrona. Si incamminò verso suo padre, e lui non svanì, nemmeno quando lei venne a trovarsi con lui direttamente sotto l’equipaggiamento per la proiezione olografica. Il fiore che aveva fra le braccia, tuttavia, svanì, e lui le prese le mani, dicendo gentilmente: — Tu sei stata il centro dei miei sforzi individuali — e Leisha scosse violentemente la testa. Aveva un fiocco azzurro fra i capelli: era nuovamente bambina. Entrò Mamselle con Alice, e Alice disse: — Non mi hai mai fatto torto, Leisha. Mai. Non c’è nulla da perdonare. — Quindi, sia Alice sia Roger scomparvero, e Leisha si trovò a correre in una foresta piena di raggi di sole, lance inclinate di luce verde e dorata che filtravano attraverso gli alberi. Stava ridendo, e nella luce c’era il calore delle piànte vive, la fragranza della primavera e il sapore del perdono. Leisha non si era mai sentita così libera e felice, come se stesse facendo esattamente ciò che aveva sempre avuto intenzione di fare. Rise ancora e corse più velocemente perché, alla fine del sentiero pieno di fiori e illuminato di luce solare, c’era sua madre che le tendeva le braccia, e rideva anche lei con il volto illuminato da un sentimento d’amore.
Aveva le guance rigate di lacrime. Stava seduta sulla poltrona nella stanza in mattoni cotti. Le luci erano state accese. Venne immediatamente assalita dalla nausea.
Drew chiese con entusiasmo: — Che cosa hai visto?
Leisha si piegò in due, combattendo contro il suo stomaco. Alla fine ansimò: — Cosa… hai fatto?
— Dimmi che cosa hai vistò. — Era inesorabile: un giovane artista.
— No!
— Allora è stato potente. — Si appoggiò all’indietro sulla carrozzella, sorridendo.
Leisha si raddrizzò lentamente, reggendosi allo schienale della poltrona. Il volto di Drew era trionfante. Lei disse con maggiore calma: — Che cosa hai fatto?
Lui rispose: — Ti ho fatto sognare.
Sognare. Dormire. Sei ragazzini nel bosco e una fialetta di interleukin-1… ma quella non era stata assolutamente la stessa cosa. Assolutamente.
Quella era stata come la notte in cui Alice si era presentata da lei nella camera d’albergo di Conewango, durante il processo a Jennifer Sharifi. La notte in cui Leisha aveva cessato di credere nella capacità della forza della legge di creare una comunità unica ed era stata, tremante, sull’orlo del…
Buio…
Il vuoto…
Quel sogno di Drew, però, era stato luce, non oscurità e, nello stesso tempo, la stessa cosa. Leisha ne era certa. Il margine di qualcosa di immenso e privo di leggi, di qualcosa che poteva ingoiare la luce minuscola e guardinga della ragione. Poi era giunta Alice. Attraverso la sconosciuta immensità, Alice aveva udito non si sa come Leisha, in un modo che non aveva nulla a che fare con l’attenta luce. "Lo sapevo", aveva sussurrato Alice. Si era recata direttamente da Leisha, contro ogni ragionevolezza.
E infine Drew, contro ogni ragionevolezza, aveva manipolato in qualche modo una parte sconosciuta della sua mente.
Drew spiegò con impazienza: — Inizia con una specie di ipnosi, ma di un tipo che raggiunge la zona della corteccia per fare appello all’universale collettivo… io le chiamo forme. Sono più di questo, ma non ho le parole per descriverle, Leisha, sai che non le ho mai avute. So soltanto che sono dentro di me e dentro chiunque altro. Io le tiro fuori, le chiamo fuori, così che riescono ad assumere delle forme proprie nei sogni di una persona. È una specie di sogno lucido, semidiretto, ma è anche più di questo. È nuovo. — Trasse un profondo respiro. — È mio.
Domande logiche la calmarono: — Semidiretto? Vuoi dire che tu hai determinato quello che io avrei sognato? — Ma non riuscì a mantenere quel tono distaccato. Stava provando troppe cose e non tutte belle. — Drew, è così che appare un sogno? È quello che fanno i Dormienti?
Lui scosse la testa. — No. Non spesso. Immagino; non so ancora che cosa ti sia successo realmente. Tu sei la prima, Leisha!
— Io ho… sognato mio padre. E mia madre.
Gli occhi di Drew scintillarono. — Bene, bene. Io stavo lavorando con le forme dei miei genitori. — Il suo giovane volto si incupì improvvisamente, perso in qualche ricordo privato che Leisha, altrettanto improvvisamente, non desiderò condividere. Sognare era troppo pubblico. Troppo irrazionale. Troppo un lasciarsi andare, un arrendersi. Se però era una resa alla luce, alla dolcezza… No. Non era realtà. I sogni erano una fuga, lo aveva sempre saputo, lei che non aveva mai sognato. I sogni erano un’evasione dal mondo reale esattamente come la pseudoscienza del Gruppo dei gemelli di Alice. Ma quello che aveva appena sperimentato grazie a Drew…
— Sono troppo vecchia per vedere il mio mondo rivoltato come un pedalino!