— Di già?
— È in anticipo. — Stella tirò su col naso; non aveva voluto che Leisha parlasse con alcun giornalista, "Che facciano pure il loro tricentenario senza di noi" aveva detto. "Che cosa c’entriamo noi? Adesso?" Leisha non aveva avuto una risposta, ma aveva accettato di incontrare comunque il giornalista. Stella sapeva essere così poco curiosa. Ma, in fondo, Stella aveva soltanto cinquantadue anni ed era difficile che trovasse divertente qualcosa.
— Annunciagli che sto arrivando — disse Leisha — ma non prima di avere fatto visita ad Alice. Dagli un po’ di caffè o di quello che ti pare. Fagli suonare dai bambini l’assolo di flauto: dovrebbe entusiasmarlo. — Seth ed Eric avevano appena imparato a costruire flauti con le ossa degli animali che recuperavano nel deserto. Stella tirò su col naso ancora una volta e uscì.
Alice si era appena svegliata. Stava seduta sul bordo del letto, mentre l’infermiera le faceva passare la camicia da notte da sopra la testa. Leisha si ritirò subito nel corridoio: Alice odiava che la sorella vedesse il suo corpo nudo. Non rientrò nella stanza finché non udì l’infermiera dire: — Ecco fatto, signora Watrous.
Alice indossava pantaloni di cotone larghi e un top bianco abbastanza ampio da permetterle di infilarlo con il solo braccio destro: il sinistro era inutilizzabile da quando era stata colpita dalla paralisi. I suoi riccioli bianchi erano stati pettinati. L’infermiera stava inginocchiata a terra, infilando i piedi della paziente in soffici pantofole.
— Leisha — esclamò Alice, mostrando piacere. — Buon compleanno.
— Volevo dirtelo prima io!
— Peccato — fece Alice. — Sessantasette anni.
— Già — commentò Leisha,, e le due donne si fissarono a vicenda, Leisha con la schiena diritta in pantaloncini bianchi e reggiseno, Alice che si sosteneva con una mano venata alla spalliera del letto.
— Buon compleanno, Alice.
— Leisha! — Era di nuovo Stella, con il suo atteggiamento da top-manager. — Hai una conferenza telefonica alle nove, quindi se devi parlare con quel giornalista…
Dall’angolo destro della bocca, tanto piano che Stella non la potesse sentire, Alice sussurrò: — Povero il mio Jordan…
Leisha mormorò di rimando: — Sai che a lui piace? - e si recò nella sala riunioni per incontrare il giornalista.
Lui la sorprese, dimostrando di essere approssimativamente un sedicenne, un ragazzetto dinoccolato con gomiti esageratamente appuntiti e una brutta pelle, vestito in quella che doveva essere l’ultima moda degli adolescenti: pantaloni corti a palloncino e una maglietta plastificata e decorata con piccoli pendenti in plastica a forma di scooter bianchi, rossi e blu. Stava appollaiato nervosamente su una sedia mentre Eric e Seth gli danzavano attorno suonando il flauto, malamente. Leisha mandò via i nipotini dalla stanza. Seth si allontanò allegramente, Eric corrugò la fronte e sbatté la porta. Nell’improvviso silenzio, Leisha si sedette dirimpetto al ragazzo.
— Che testata ha detto di rappresentare, signor… Cavanaugh?
— La rete della mia scuola — spifferò lui. — Solo che non l’ho detto alla signora con cui ho preso l’appuntamento.
— Ovviamente no — confermò Leisha. Che cos’erano i suoi piedi al confronto? Questo sì che era divertente. La prima intervista che concedeva in dieci anni e saltava fuori che si trattava di un ragazzo per il giornalino della scuola. A Susan sarebbe piaciuto moltissimo.
— Benissimo, allora, cominciamo — disse lei. Sapeva che il ragazzo non aveva mai parlato con un Insonne prima di allora. Ce l’aveva scritto dappertutto: la curiosità, il disagio, il giudicare furtivo. Nessuna invidia, però, in nessuna delle sue forme virulente. Quella era la cosa eccezionale: la sua assenza in quel ragazzino così poco eccezionale.
Era più organizzato di quanto non sembrasse. — Mia madre dice che era diverso da come è adesso. Dice che i Muli e perfino i Vivi odiavano gli Insonni. Come mai?
— Come mai lei non lo fa?
La domanda sembrò sorprenderlo profondamente. Corrugò la fronte e poi le lanciò un’occhiata di celato imbarazzo che disse a Leisha, ben più chiaramente delle parole, quanto lui fosse decoroso. — Be’, non vorrei proprio offenderla ma… perché io dovrei odiarla? Voglio dire, i Muli sono quelli che… gli Insonni sono in realtà solo una specie di Super-Muli, no?… che devono fare tutto il lavoro, A noi Vivi spetta di goderci i risultati, Vivere. Sa — disse in uno slancio di ingenua confidenza — non riesco proprio a capire perché i Muli non lo comprendono e odiano noi.
— Plus ga change, plus c’est la même chose.
— Che significa?
— Nulla, signor Cavanaugh. Ci sono Muli nella sua scuola?
— Nooo. Hanno scuole loro. — Guardò Leisha come se lei fosse stata tenuta a saperlo, e, ovviamente, lei lo sapeva. Gli Stati Uniti erano ormai una società a tre strati: i nullatenenti, che tramite il misterioso ed edonistico narcotico della Filosofia del Vivere Vero erano divenuti i beneficiari del dono dell’ozio. I Vivi, l’ottanta per cento della popolazione, che si erano liberati dell’etica del lavoro per sostituirla con una godereccia versione popolare dell’antica etica aristocratica: i fortunati non devono lavorare. Sopra di loro, oppure sotto, c’erano i Muli, Dormienti migliorati geneticamente che gestivano la macchina politica ed economica, come dettato dai, e in cambio dei, voti signorili della nuova classe oziosa. I Muli tiravano avanti: i loro robot lavoravano. Alla fine c’erano gli Insonni, quasi tutti invisibili all’interno del Rifugio, che venivano trascurati dai Vivi, se non dai Muli. L’intera organizzazione a trifoglio, Es, Io e Super Io, come qualcuno l’aveva sardonicamente etichettata, veniva assicurata dall’economica, onnipresente energia-Y che alimentava le fabbriche automatizzate rendendo possibile l’esistenza di una prodiga assistenza sociale che barattava pane e giochi del circo con voti. Tutta quella situazione, pensò Leisha, era tipicamente americana, essendo riuscita a combinare democrazia con materialismo, mediocrità con entusiasmo, potere con l’illusione del controllo dal basso.
— Mi dica, signor Cavanaugh, che cosa fate lei e i suoi amici con tutto il tempo libero che avete?
— Fare? — sembrò sconcertato.
— Sì. Fare. Oggi, per esempio. Quando avrà termi nato di registrare questa intervista, che cosa farà?
— Be’, lascerò a scuola la registrazione. L’insegnante la inserirà nell’olonotiziario scolastico, immagino. Se vorrà farlo.
— È un Vivo o un Mulo?
— Un Vivo, ovviamente — rispose, con un certo di sprezzo. Leisha si accorse che la sua stima stava calando rapidamente. — Poi potrei leggere qualcosa fino al termine della scuola, a mezzogiorno: ho quasi imparato a leggere, ma non ancora bene. È abbastanza inutile, ma mia madre vuole che impari. Poi c’è la corsa di scooter a mezzogiorno, ci andrò con qualche amico…
— Chi le paga e le organizza?
— Il nostro deputato alla camera bassa locale, ovviamente. Cathy Miller. Lei è un Mulo.
— Ovviamente.
— Poi qualche amico darà una fantastica narcofesta, il nostro uomo al congresso ha fatto circolare della roba nuova dal Colorado o da un altro posto del genere, poi c’è l’olovideo a realtà virtuale che voglio fare…
— Come si chiama?
— Tamarra dei Mari di Marte. Lei non andrà a vederlo? È una gallata.
— Forse lo farò — rispose Leisha. Piedi, giornalisti, Tamarra dei Mari di Marte. Moira, la figlia di Alice, era emigrata su una colonia marziana. — Lei sa che in realtà non ci sono mari su Marte, vero?
— Davvero? — fece lui, del tutto privo di interesse. — Poi andrò a giocare a palla con qualche amico, e poi io e la mia ragazza andremo a farci una scopata. Dopo, se ci sarà tempo, potrei raggiungere i miei genitori nella casetta di mia madre perché terranno un ballo. Se non ci sarà tempo… signorina Camden? C’è qualcosa di divertente?