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Mentre risaliva in auto, Leisha disse a Jordan: — Mi dispiace per quell’ultima battuta.

— Non preoccuparti — rispose Jordan.

— Be’, mi dispiace per te. So che credi in quello che stai facendo qui, Jordan.

— Sì — commentò Jordan tranquillamente. — È così. Nonostante tutto.

— Quando parli così, sembri tua madre.

Non si poteva certo dire la stessa cosa di Leisha, pensò Jordan, e si sentì immediatamente sleale. Era vero, però: Alice sembrava più vecchia di una quarantatreenne, Leisha molto più giovane. L’invecchiamento dovuto alla gravità si notava nel volto dall’ossatura sottile: l’invecchiamento dovuto al decadimento dei tessuti, no. Non sarebbe dovuta sembrare, allora, di ventuno anni e mezzo? Metà dell’invecchiamento. Non era così: aveva più o meno l’aspetto di una trentenne e, apparentemente, lo avrebbe sempre avuto. Una trentenne bellissima e scattante, le rughe appena accennate attorno agli occhi assomigliavano più a delicati microcircuiti che non a tenui solchi.

— Come sta tua madre? — chiese Leisha.

Jordan comprese tutte le complessità insite nella domanda. Non aveva alcuna intenzione di invischiarvisi. — Bene — rispose. E quindi aggiunse: — Andrai direttamente da qui al Rifugio?

Leisha, mezza dentro e mezza fuori dall’auto, sollevò il volto per guardare il suo. — Come fai a saperlo?

— Hai la tipica espressione di quando stai venendo o stai andando lì.

Lei abbassò lo sguardo: lui non avrebbe dovuto menzionare il Rifugio. La donna disse: — Di’ a Hawke che non creerò un pasticcio legale per la telecamera a parete. Tu non stare in pena per non avermelo detto. Hai già anche troppe contraddizioni da ricomporre, Jordy. Ma sai, comincio a stancarmi delle opprimenti prestanze fisiche come quella del tuo signor Hawke. Tutto carisma ed egocentrismo spropositato, usano l’intensità dei loro credo per colpirti come pugni. È logorante.

Lei ritirò le lunghe gambe all’interno dell’auto. Jordan rise, producendo un suono tale che Leisha gli lanciò una breve occhiata con un’incerta espressione interrogativa negli occhi verdi. Ma lui scosse la testa, la baciò e chiuse la portiera. Mentre l’auto si allontanava, lui si raddrizzò, senza ridere. "Carisma. Egocentrismo spropositato. Opprimenti prestanze fisiche."

Com’era possibile, dopo tutto quel tempo, che Leisha non si fosse ancora resa conto di essere anche lei una di quel genere?

Leisha appoggiò la testa contro il sedile in pelle dell’aereo aziendale delle Imprese Baker. Era l’unica passeggera. Sotto di lei, la pianura del Mississippi stava cominciando a salire ai piedi della catena dei Monti Appalachi. La mano di Leisha accarezzò il libro appoggiato sul sedile di fianco al suo e lo sollevò. Era pur sempre una distrazione da Calvin Hawke.

Avevano fatto una copertina troppo sgargiante. Abramo Lincoln, senza barba, in piedi con un cappottone e un cappello a cilindro neri contro lo sfondo di una città in fiamme (Atlanta? Richmond?) ghignava in modo orribile. Fiamme color cremisi e dorate lambivano un cielo di porpora. Cremisi, oro e fucsia. Su video, i colori sarebbero stati ancora più violenti. In un ologramma tridimensionale, sarebbero stati praticamente fosforescenti.

Leisha sospirò. Lincoln non si era mai trovato in una città in fiamme. Nel periodo degli eventi del libro, aveva avuto la barba. Il libro stesso, poi, era un approfondito studio accademico sui discorsi di Lincoln alla luce della legge costituzionale, non alla luce di una battaglia. Nel libro non c’era nulla di sogghignante. Nulla vi bruciava.

Fece scorrere le dita sul nome inciso nella copertina. Elizabeth Kaminsky.

— Perché? — le aveva chiesto Alice nel suo tipico modo diretto.

— Non ti pare ovvio? — aveva risposto Leisha. — I miei casi legali acquistano anche troppa notorietà di per sé. Voglio che il libro si guadagni quel po’ di attenzione accademica che realmente vale piuttosto che…

— Questo l’ho capito — aveva ribattuto Alice. — Ma perché quello pseudonimo tra tutti quelli che potevi scegliere? — Leisha non aveva saputo cosa rispondere. Una settimana dopo aveva pensato a una risposta ma, ormai, la striminzita visita era terminata, e Leisha non si trovava più in California per comunicarla. Fu tentata di telefonare alla sorella, ma erano le quattro del mattino a Chicago, le due a Morro Bay e, ovviamente, Alice e Beck sarebbero stati addormentati. In ogni caso, poi, lei e Alice si telefonavano raramente.

"Per una cosa che Lincoln disse nel 1864, Alice. Unito al fatto che ho quarantatré anni, la stessa età che aveva Papà quando siamo nate, e che nessuno, nemmeno tu, crede che io mi stia stancando di tutta questa storia."

La verità era, tuttavia, che lei non avrebbe probabilmente mai detto una cosa simile ad Alice, né a Chicago né in California. Non si sa come, tutto ciò che lei diceva ad Alice si trasformava in ampolloso. Tutto quello che Alice diceva a lei invece, come quella mistica sciocchezza del Gruppo dei gemelli, a Leisha appariva crivellato di buchi sia nella logica sia nella sostanza. Erano come due persone che cercassero di comunicare in un linguaggio straniero per entrambe, ridotto a cenni di assenso e sorrisi, non essendo sufficiente l’iniziale buona volontà a compensare lo sforzo.

Vent’anni prima, per un solo momento, era sembrato che fra loro potesse essere diverso. Ma ormai…

Ventiduemila Insonni sulla Terra, il novantacinque per cento dei quali negli Stati Uniti. Ottanta per cento di questi all’interno del Rifugio. Visto inoltre che quasi tutti i neonati Insonni ormai erano generati naturalmente e non creati in vitro, la maggior parte degli Insonni veniva partorita all’interno del Rifugio. I genitori di tutto il paese continuavano ad acquistare altre alterazioni genetiche: QI maggiorato, vista migliorata, un forte sistema immunitario, zigomi alti. A volte a Leisha sembrava che modificassero qualsiasi cosa, entro i parametri legali, indipendentemente da quanto fosse banale. Ma non l’insonnia. Le alterazioni genetiche erano costose: perché acquistare per il proprio amato bambino una vita di bigotteria, pregiudizio e pericolo fisico? Meglio scegliere una modificazione genetica ormai assimilata. Bambini belli o intelligenti potevano scontrarsi con un’invidia naturale, ma generalmente non con un odio virulento. Non venivano considerati una razza differente, una razza che cospirava costantemente per il potere, costantemente attiva dietro le quinte, costantemente temuta e disprezzata. Gli Insonni, aveva scritto Leisha per una rivista nazionale, erano per il Ventunesimo secolo ciò che gli Ebrei erano stati per il Quattordicesimo.

Vent’anni di battaglie legali per cambiare quel concetto, e non era mutato nulla.

— Sono stanca — fece Leisha a voce alta, tanto per dire. Il pilota non si voltò: non era molto portato alla conversazione. Le basse colline, immutate, continuavano a scivolare via seimila metri sotto di loro.

Leisha aprì il proprio portatile. Non serviva a nulla essere stanchi: non al tormentato abisso fra lei e Alice, non a Calvin Hawke nella lotta che si era lasciata alle spalle, non al Rifugio nella lotta che l’aspettava. Quei problemi sarebbero stati ancora tutti lì e, nel frattempo, lei avrebbe potuto sbrigare un po’ di lavoro. Altre tre ore per arrivare all’interno dello stato di New York, due per tornare a Chicago, tempo a sufficienza per terminare il verbale del processo per la causa "Calder contro Metallurgica Hansen". Aveva un appuntamento con un cliente a Chicago alle quattro del pomeriggio, una deposizione alle cinque e trenta del pomeriggio, un altro appuntamento con un cliente alle otto di sera e poi il resto della notte per prepararsi al processo del giorno dopo. Forse sarebbe riuscita a farci stare tutto.

La legge era l’unica cosa di cui non si stancava mai. L’unica cosa in cui continuasse a credere, nonostante vent’anni di inevitabili scartoffie insite nel suo esercizio. Una società con un sistema giuridico funzionante, ragionevolmente non corrotto (diciamo all’ottanta per cento) era una società che ancora credeva in se stessa.

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