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Dai lati della grande sala essi lo acclamarono, e dalle gallerie aperte, che sorgevano in alto, e i loro occhi piatti, glauchi e paurosi parevano scintillare, le loro strette, sottili teste serpentine si chinavano in segno di omaggio.

Corpi sinuosi che si muovevano torcendosi, con una strana, orribile grazia che faceva rabbrividire, corpi che parevano fluire, scorrere scivolare, piuttosto che camminare. Mani dalle dita prive di articolazioni, e di piedi che non producevano alcun suono, e bocche prive di labbra, che parevano schiudersi in segno di scherno, per sibilare sinistre risate, infinitamente crudeli. E per tutto il vasto salone si udiva un fruscio odioso, secco, sgradevole… la lieve frizione di una carne che aveva perduto le antiche, primordiali scaglie, ma non la sua durezza serpentina.

Carse sollevò la spada di Rhiannon, per ricambiare quel saluto, e si costrinse a parlare.

«Rhiannon si compiace del saluto dei suoi figli.»

Gli parve, in quel momento, che un sottile, frusciante sibilo si diffondesse nella grande sala, un sibilo che pareva l’espressione nascosta di una risata beffarda. Ma non poteva esserne sicuro, e Hishah già stava parlando:

«Mio Signore, ecco le tue antiche armi.»

Erano al centro della sala, in uno spazio libero. C’erano tutti gli enigmatici meccanismi che egli aveva visto nella Tomba di Rhiannon, quando era iniziata la sua strana, incredibile avventura, al suo arrivo in quell’altro tempo, in quel mondo del remoto passato. Vide la grande ruota piatta di cristallo, vide le sbarre metalliche tozze, stranamente intricate, e vide tutti gli altri strumenti che ricordava confusamente… e tutti mandavano cupi bagliori metallici, nel sinistro lucore del globo verdastro.

Il cuore di Carse parve arrendersi per un momento, poi riprese a battere, precipitosamente.

«Bene,» proclamò. «Non abbiamo molto tempo… portatele a bordo della chiatta, in modo che io possa ritornare immediatamente a Sark.»

«Certo, Signore,» disse Hishah. «Ma prima non vorresti esaminarle, per assicurarti che ogni cosa sia in ordine? Nella nostra grande ignoranza, potremmo averle involontariamente danneggiate, toccandole…»

Carse avanzò a grandi passi fino al centro della sala, là dove si trovavano le armi, e per qualche istante rimase curvo su di esse, fingendo di esaminarle, con una sicurezza che egli non provava. Finalmente, dopo un intervallo che giudicò soddisfacente, sollevò il capo, e annuì.

«Nessun danno è stato fatto. E ora…»

Hishah lo interruppe, parlando in un tono di untuoso rispetto.

«Prima di andartene, non vorresti spiegarci il funzionamento di questi strumenti? I tuoi figli sono sempre stati avidi di conoscenza.»

«Non c’è tempo per questo,» disse Carse, irato. «E inoltre, voi sapete bene che cosa siete… dei bambini che ancora non conoscono i segreti della conoscenza. Non potreste capire.»

«Può essere forse, Signore,» domandò Hishah, in tono sommesso e carezzevole, «Che tu stesso non sei in grado di capire?»

Ci fu un momento di completa immobilità, di completo silenzio.

Carse, in quell’istante, fu schiacciato dalla gelida consapevolezza della fine. Si sentiva condannato, chiuso in trappola. Voltandosi, si accorse che le file dei Dhuviam si erano silenziosamente serrate, dietro di lui, sbarrandogli ogni via di scampo.

Non avrebbe potuto compiere neppure un disperato tentativo per fuggire da quella sala.

All’interno del circolo, dello spazio libero completamente circondato dalla muraglia compatta dei Dhuviani, c’erano solo Garach, Ywain e Boghaz, in piedi al suo fianco. C’era un’espressione attonita, una mescolanza di orrore e di sorpresa, sul volto debole di Garach, e il Valkisiano aveva le spalle curve, e pareva schiacciato da un orrore che non perdeva la sua intensità, per il fatto che egli si trovava in una situazione che aveva certamente previsto. Soltanto Ywain non era sorpresa, né inorridita.

Lei stava fissando Carse, e i suoi occhi erano quelli di una donna che ha paura, ma non si trattava della paura di una situazione ignota, e dell’atavica paura del Serpente. Si trattava di una paura diversa. Carse intuì, d’un tratto, che ella aveva paura per lui, che vedeva scendere sopra di lui l’ombra oscura della morte, e che non voleva che lui morisse.

Il silenzio era totale, assoluto, colmo di attesa e di tensione.

In un ultimo, disperato tentativo di salvarsi dal destino che ormai sentiva incombere sopra di lui, Carse si rivolse a Hishah, cercando di mettere nella sua voce tutta la collera di un dio sdegnato, e domandò, con disprezzo e arroganza:

«Che cosa significa questa insolenza? Vuoi forse che io prenda le mie armi, per usarle contro di voi?»

«Fallo, se puoi,» disse Hishah, con subdola dolcezza. «Fallo, o falso Rhiannon, perché è certo che in nessun altro modo tu potrai mai più uscire da Caer Dhu!»

Capitolo XVIII

LA COLLERA DI RHIANNON

Carse rimase dov’era, immobile, circondato dallo scintillio di meccanismi di cristallo e di metallo che per lui non significavano nulla, che per lui erano strani e alieni e incomprensibili, e capì, con una terribile, definitiva certezza, che per lui era giunto il momento della sconfitta. E ora, la sibilante risata veniva da ogni lato della grande sala, infinitamente crudele e sinistra e sprezzante.

Garach tese una mano tremante verso Hishah.

«Ma allora…» balbettò, «Ma allora questo non è Rhiannon?»

«Anche la tua misera mente umana dovrebbe dirtelo, a questo punto,» rispose Hishah, con infinito disprezzo. Si era tolto il cappuccio, ora, e si stava avvicinando a Carse, e i suoi occhi maligni di serpente erano pieni di scherno. «Sarebbe bastato il contatto mentale, per farmi capire che tu eri un impostore, ma non ho avuto bisogno neppure di quello. Tu, Rhiannon! Rhiannon dei Quiru, che è venuto a salutare i suoi figli a Caer Dhu, in pace e fratellanza!»

La furtiva risata maligna usciva sibilante da ogni gola Dhuviana, e Hishah sollevò il capo, e la pelle della sua gola pulsava di tenebrosa allegria.

«Guardatelo, fratelli! Salutate Rhiannon, che non sapeva nulla del Velo, né del motivo per cui esso protegge Caer Dhu!»

E tutti lo salutarono, inchinandosi profondamente.

Carse era immobile. Per il momento, aveva perfino dimenticato la paura.

«Stupido!» sibilò Hishah. «Alla fine, Rhiannon ci odiava. Perché alla fine aveva compreso la sua follia, aveva scoperto che i bambini ignoranti ai quali aveva dato le briciole del suo sapere erano diventati troppo intelligenti. Con il Velo, del quale egli ci aveva insegnato il segreto, rendemmo inespugnabile la nostra città, impenetrabile perfino alle sue armi, e così, quando alla fine si rivolse contro di noi, era già troppo tardi.»

Carse domandò, lentamente:

«Per quale motivo si rivolse contro di voi?»

Hishah rise.

«Aveva scoperto l’uso che intendevamo fare degli insegnamenti che egli ci aveva impartito.»

Ywain fece un passo avanti, e disse:

«E di quale uso si trattava?»

«Credo che tu già lo sappia,» rispose Hishah. «È per questo che tu e Garach siete stati portati qui… non solo per vedere il momento in cui questo impostore sarebbe stato smascherato, ma anche per imparare, una volta per sempre, qual è il vostro posto nel nostro mondo.»

La sua voce sibilante e melliflua aveva ora un tono di trionfo, il tono di un conquistatore.

«Da quando Rhiannon venne rinchiuso nella sua tomba, siamo riusciti a estendere sempre più il nostro dominio su ogni costa del Mare Bianco; e per farlo, abbiamo usato metodi sottili e indiretti: noi siamo pochi, e contrari alla guerra aperta. Perciò abbiamo operato attraverso i regni umani, servendoci della vostra avidità per i nostri scopi.

«Ora, noi possediamo le armi di Rhiannon. Ben presto riusciremo a scoprire il modo di usarle, e allora non avremo più bisogno di strumenti umani. I Figli del Serpente regneranno in ogni palazzo reale… e dai loro sudditi esigeranno soltanto obbedienza e rispetto.

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