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Ywain camminava sola, al centro di una silenziosa scorta composta dai Re del Mare. L’uomo sfigurato, e dalle profonde cicatrici, la guardava con occhi fissi, pieni d’odio, un odio che pareva sconfinare nella follia.

Rold e Barbadiferro deposero a terra Carse, quando furono alla sommità della scalinata, ansimando.

«Sei pesante, amico mio,» ansimò Rod, sogghignando. «E allora… la nostra penitenza ti ha soddisfatto?»

Carse imprecò, vergognandosi profondamente di quanto era accaduto. Poi dimenticò ogni altra cosa, e fissò, con immenso stupore, la città di Khondor.

Era una città monolitica, scavata nella roccia stessa; la cresta della roccia si era spaccata, probabilmente a causa di qualche spaventoso movimento sismico di assestamento, che risaliva ad epoche ancor più remote della preistoria di Marte. Lungo tutte le pareti interne del crepaccio si aprivano delle porte, e imboccatare di gallerie, un perfetto alveare di abitazioni e di vertiginose scalinate a strapiombo.

Coloro che erano stati troppo vecchi o deboli per compiere la lunga discesa fino al porto, per accogliere i nuovi arrivati, ora li acclamavano dalle gallerie o dai vicoli stretti e dalle anguste piazze.

Il vento del mare soffiava freddo e violento, a quell’altezza, ululando e gemendo nelle strade di Khondor, un ululato e un gemito che non si arrestavano mai, e si mescolavano in un perenne, malinconico concerto, con il rombare delle onde, in basso. Sui picchi più alti c’era un continuo andare e venire di Celesti, che parevano amare i luoghi più elevati, come se le strade fossero state troppo anguste e soffocanti per le loro grandi ali. Essi si lanciavano nell’aria, si lasciavano afferrare dalle mani del vento, planavano lenti e armoniosi nell’azzurro, in lunghi voli, strane piroette, improvvise impennate, descrivendo strani arabeschi e giochi sconosciuti nell’aria, giochi interrotti dalle loro armoniose risate.

Verso l’entroterra, Carse poté scorgere dei verdi campi e dei pascoli, saldamente serrati tra le braccia delle montagne. Guardando quella scena strana e bellissima, provò in cuor suo la certezza che quella città avrebbe potuto sostenere un assedio anche per tutta l’eternità.

Percorsero i sentieri rocciosi, insieme al popolo di Khondor, che sciamava gioiosamente dietro di loro, riempiendo la città soprannaturale di grida festanti e di risate. Poi giunsero in una grande piazza, con due massicci porticati che si ergevano l’uno di fronte all’altro, su due lati. Davanti a uno di essi c’erano delle colonne scolpite, dedicate al Dio delle Acque e al Dio dei Quattro Venti. Davanti all’altro garriva nel vento una bandiera dorata, sulla quale era ricamata l’aquila di Khondor.

Sulla soglia del palazzo, Barbadiferro diede un amichevole colpo sulla spalla del terrestre, un semplice buffetto che fece barcollare Carse.

«Ci saranno molti e gravi discorsi questa notte, mentre il Consiglio sarà riunito a banchetto. Ma prima, avremo tutto il tempo per ubriacarci come conviene. Che ne dici?»

E Carse rispose:

«Andiamo!»

Capitolo XI

IL NOME DI RHIANNON

Quella notte le torce illuminarono con il loro bagliore fumoso la grande sala del banchetto. Fra le colonne, sui focolari rotondi, dei fuochi ardevano rosseggianti, e le fiamme si levavano calde e splendide. Le splendide colonne erano coperte di scudi, e di insegne di molte navi. L’immenso salone era stato ricavato dalla roccia viva, con gallerie che davano sul mare.

Nella sala, erano state disposte delle lunghe tavole. E ora, tra queste tavole, un nugolo incessante di servitori si muoveva rapidamente, portando grandi otri di vino e sontuosi arrosti fumanti, appena tolti dal fuoco. Carse aveva nobilmente seguito l’esempio di Barbadiferro per tutto il pomeriggio, e alla sua vista un po’ vacillante pareva che tutta Khondor fosse radunata in quella sala, a fare festa, alla musica selvaggia delle arpe e al canto dei bardi, le cui voci narravano amori ed eroiche gesta e battaglie.

Lui sedeva, tra i Re del Mare e i capi dei Nuotatori e dei Celesti, su un palco che si levava all’estremità nord del salone. Anche Ywain era presente. L’avevano costretta a rimanere in piedi, e lei era rimasta immobile e altera per ore e ore, senza dare alcun segno di debolezza, tenendo ostinatamente la testa alta, come per sfidare tutti coloro che la circondavano. Carse non poteva fare a meno di ammirarla. Gli piaceva, in lei, il fatto ch’ella fosse sempre l’orgogliosa, fiera Ywain di Sark.

Intorno alla parete curva erano state poste le figure di prua delle navi catturate in guerra, e così Carse si sentiva circondato da cupi mostri torreggianti nell’ombra, mostri in agguato, che tremavano sull’orlo della vita, mentre il chiarore incerto delle torce traeva riverberi da occhi di pietre preziose, o da artigli di metallo prezioso, illuminando fuggevolmente un volto scolpito, parzialmente distrutto da un ariete.

Emer non si vedeva da nessuna parte, nella sala.

La testa di Carse risuonava dall’incessante conversazione, e girava un poco per l’ebbrezza del vino, e dentro di lui si stava accumulando un’eccitazione crescente. Accarezzava di quando in quando l’elsa della spada di Rhiannon, che teneva tra le ginocchia. Ma c’era tempo, c’era tempo, e poi il momento sarebbe venuto.

Con un tonfo sonoro, Rold depose sul tavolo il corno dal quale aveva bevuto.

«E ora,» proclamò. «È il momento di passare agli affari.» Aveva la lingua un po’ legata, come tutti coloro che partecipavano al banchetto, ma era pienamente padrone di sé. «E di quali affari dobbiamo occuparci, miei signori? Ebbene, del più piacevole tra tutti!» Scoppiò in una risata tonante. «Quello che ha occupato la mente e il pensiero di tutti noi per tanto tempo… quello che era stato un sogno, e che adesso è realtà, grazie agli dèi! La morte di Ywain, la Signora di Sark!»

Carse s’irrigidì. Era il momento che aveva aspettato.

«Un momento! Ywain è mia prigioniera.»

Tutti l’acclamarono, a quelle parole, e brindarono di nuovo alla sua salute, tutti meno Thorn di Tarak, l’uomo dal braccio rigido e dal volto sfigurato, che per tutta la sera era rimasto seduto in silenzio, bevendo come gli altri, senza però ubriacarsi.

«Ma certo!» disse Rold. «E, come tua prigioniera, è tuo diritto scegliere di quale morte dovrà morire!» Si voltò a guardare Ywain, con lo sguardo di un uomo che pregusta un raffinato piacere per molto tempo sognato. «Come dovrà morire, dunque?»

«Morire?» Carse si alzò in piedi. «E chi ha detto che Ywain deve morire?»

Allora lo fissarono tutti, sbalorditi e increduli, perché quelle parole, sul momento, li avevano tanto sorpresi, che nessuno riusciva a credere di averle udite davvero. Ywain fece un amaro sorriso.

«E per quale altro motivo avresti dovuto portarla qui?» domandò Barbadiferro, finalmente. «La spada è una morte troppo pulita e misericordiosa, per lei, altrimenti l’avresti uccisa tu stesso sulla galera. Certo l’hai portata qui, perché noi possiamo vendicarci, vero?»

«Non l’ho portata qui per darla a nessuno!» gridò Carse. «Io dico che è mia, e dico anche che non deve morire!»

Ci fu una pausa di silenzio, un silenzio gravido di attonito stupore. Gli occhi di Ywain cercarono, e fissarono, quelli del terrestre, scintillanti di maliziosa ironia. E poi Thorn di Tarak disse, nel silenzio, una sola parola:

«Perché?»

Stava fissando Carse negli occhi, ora, lo fissava duramente con occhi nei quali ardeva una luce di follia, e il terrestre si sentì a disagio, perché era difficile rispondere a quella domanda.

«Perché la sua vita è troppo preziosa, come ostaggio. Siete forse dei bambini, per non riuscire a capire una cosa tanto semplice? Non capite che, in cambio della sua vita, voi potreste acquistare la libertà di ogni schiavo Khond che marcisce sulle galere e nelle prigioni di Sark… che forse potreste convincere Sark a scendere a patti?»

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