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La polvere delle antiche colline sussurrava al soffio del vento eterno suscitato da Fobos, e le stelle splendevano fredde, grappoli di stelle sfolgoranti di una luce di ghiaccio in un cielo nero e immenso. Le luci di Jekkara, e la grande desolazione nera e cupa del fondo del mare morto, si stendevano ora lontanissime, sotto di loro. Penkawr guidava il loro cammino, su per le gole ripide e le balze dirupate, mentre le loro strane cavalcature trovavano la strada con sorprendente agilità su quel terreno insidioso e scosceso.

«Ecco come ho trovato il posto,» disse Penkawr. «Mi trovavo su un pendio, quando la mia bestia si spezzò una zampa, incespicando in un buco… e la sabbia, precipitando all’interno, smossa dall’incidente, allargò il buco. E sotto c’era la tomba, scavata nella roccia del dirupo. Ma l’entrata era ostruita, quando l’ho scoperta.» Si voltò, sul dorso della sua bizzarra cavalcatura, e guardò Carse, con i suoi occhi gialli, malevoli. «Sono stato io a trovare la tomba,» ripeté. «E ancora non capisco per quale motivo dovrei concederti le parti del leone.»

«Perché io sono il leone,» disse Carse, allegramente.

Fece qualche gesto con la spada, affondando i fendenti nell’aria, provando la flessibilità dell’arma con rapide torsioni del polso, mentre le stelle di ghiaccio si riflettevano scintillando sulla lama, traendone vaghi, soffusi bagliori. Gli batteva il cuore, per l’eccitazione, e si trattava dell’eccitazione dell’archeologo, e non solo di quella del predone.

Lui conosceva molto più di Penkawr la vera importanza della scoperta. La storia marziana era così incredibilmente antica, che percorrendo a ritroso il fiume del tempo essa impallidiva, svaniva in una nebbia confusa, dalla quale solo vaghe leggende erano giunte… leggende che parlavano di razze umane e semi-umane, di guerre dimenticate, di dei scomparsi.

I più grandi tra tutti gli dei erano stati i Quiru, eroi umani e sovrumani a un tempo, depositari di tutta la sapienza e di tutta la potenza. Ma c’era stato un ribelle, tra loro… l’oscuro Rhiannon, il Maledetto, il cui orgoglio peccaminoso aveva provocato una misteriosa catastrofe.

I Quiru, dicevano i miti, avevano schiacciato Rhiannon per quel peccato, e per punirlo l’avevano rinchiuso in una tomba nascosta. E per oltre un milione di anni gli uomini avevano cercato la Tomba di Rhiannon, pensando che i segreti della potenza di Rhiannon fossero nascosti in essa.

Carse era uno studioso troppo profondo di archeologia per poter prendere troppo sul serio le antiche leggende. Però egli credeva nell’esistenza di una tomba incredibilmente antica, una tomba che aveva generato tutti quei miti. E poiché doveva trattarsi della reliquia più antica esistente su Marte, la sua scoperta e le cose che essa conteneva, avrebbero certamente fatto di Matthew Carse l’uòmo più ricco dei tre pianeti… se fosse vissuto per godere il frutto della sua scoperta.

«Da questa parte,» disse Penkawr, spezzando improvvisamente il silenzio. Il ladro aveva cavalcato per molto tempo in silenzio, immerso nei suoi pensieri, con il volto cupo e ostile.

Ormai si trovavano sulle colline più alte, dietro Jekkara, e la città era lontana. Carse seguì il ladro lungo uno stretto costone roccioso, sul fianco di un dirupo ripidissimo.

Perkawr scese di sella, e fece rotolare da un lato un grosso masso, rivelando così un’apertura nella roccia, ampia quanto bastava perché un uomo vi si potesse introdurre strisciando.

«Entra tu per primo,» disse Carse. «Prendi la lampada.»

Con palese riluttanza, Penkawr obbedì, e Carse lo seguì nell’angusta tana.

Dapprima agli occhi di Carse si presentò soltanto un compatto, denso muro di tenebre, nel quale l’alone rossigno della lampada a cripton penetrava solo per un breve tratto, senza violare, in realtà, quel misterioso manto di oscurità. Penkawr continuava ad avanzare, strisciando, circospetto come uno sciacallo impaurito.

Spazientito, Carse gli strappò di mano la lampada, e la tenne alta. Dopo essere penetrati nello stretto pertugio, erano passati in un corridoio che s’inoltrava diritto nelle viscere della montagna; era quadrato e disadorno, e le pareti di pietra erano mirabilmente levigate. Rialzandosi, Carse s’incamminò lungo quel corridoio tenebroso, inoltrandosi nella montagna, seguito da Penkawr.

Il corridoio sfociava in una vasta camera. Anch’essa era quadrata, e, per quello che Carse poteva vedere, le sue pareti erano levigate e perfette come quelle del corridoio. C’era un palco, a un’estremità, con un altare di marmo sul quale era scolpito lo stesso simbolo che appariva sull’elsa della spada… l’oroborus, in forma di serpente alato. Ma il circolo era spezzato, poiché la testa del serpente era ritta, come se avesse voluto fissare un nuovo e misterioso infinito.

La voce di Penkawr giunse, in un roco sussurro, dal circolo di luce rossigna alle spalle di Carse.

«È qui che ho trovato la spada. Ci sono altre cose, nella camera, ma non le ho toccate.»

Carse aveva già notato degli oggetti che scintillavano pallidi nelle tenebre. Assicurò la lampada alla cintura, e si fece avanti, per esaminarli meglio.

Davanti ai suoi occhi apparve un tesoro incalcolabile… il suo tesoro! C’erano superbe armature, uscite dalle fucine di incomparabili maestri d’armi, ornate di blasoni fatti di gioielli mai visti; c’erano degli elmi di strana forma, forgiati con sconosciuti metalli rilucenti, che scintillavano di misteriose fiammelle ulteriori nel chiarore velato della lampada rossastra. C’era un seggio d’oro massiccio, forse un trono, con fantastici intarsi di un metallo brunito, e che su ciascun bracciolo era ornato di un’enorme gemma fulva, che raccoglieva il chiarore della lampada e lo scomponeva in mille e mille guizzi di purissimo fuoco, aggiungendo splendore allo splendore.

E Carse si rese conto che tutte queste cose dovevano essere incredibilmente antiche. Uscivano dalla polverosa storia del rosso pianeta morente, e dovevano provenire dagli angoli più remoti di Marte.

«Affrettiamoci!» lo esortò Penkawr, in tono supplichevole.

Carse si riscosse, e sorrise della propria debolezza: per un momento lo studioso che era in lui aveva sopraffatto il predone.

«Porteremo via tutto quello che potremo, scegliendo i monili più piccoli,» disse. «Basterà questo primo carico a renderci ricchissimi.»

«Ma tu sarai due volte più ricco di me,» disse Penkawr, in tono astioso. «Avrei potuto rivelare il mio segreto a un terrestre di Barrakesh, e lui avrebbe accettato di vendere tutti questi oggetti, lasciandomi la metà del ricavato.»

Carse si mise a ridere.

«Certo, avresti potuto farlo, Penkawr. Ma hai voluto chiedere l’aiuto di un famoso esperto, e sai bene che gli esperti si fanno pagare cari, per i loro servigi.»

Aveva terminato di fare il giro della camera, ed era ritornato vicino all’altare. E in quel momento notò, per la prima volta, che dietro a esso si trovava una porta. Vi entrò, e Penkawr, riluttante, lo seguì.

Oltre la soglia c’era un breve passaggio, in fondo al quale si trovava un’altra porta di metallo, piccola, e chiusa da pesanti sbarre. Ma le sbarre erano state sollevate, e ora la porta era lievemente socchiusa, una fessura di pochi centimetri. Sopra lo stipite c’era un’iscrizione, vergata negli antichi caratteri dell’Alto Marziano, rimasti immutati e immutabili attraverso i millenni. Carse lesse con facilità la scritta.

«La condanna di Rhiannon, imposta su di lui per l’eternità dai Quiru, signori dello spazio e del tempo.»

Carse spinse la porta di metallo, e varcò la soglia. E subito si fermò, sorpreso, rimase immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé.

Oltre la soglia si apriva una grande camera di pietra, uguale a quella che avevano appena lasciato.

Ma non c’erano oggetti, in quella nuova camera. Non c’erano troni d’oro e diademi e armature e monili.

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