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E mentre guardava, Carse si rese conto che l’essere alieno si era ritirato da lui, così piano, così sottilmente, che non v’era stata alcuna scossa, che non v’era stato un vero e proprio senso di distacco. La sua mente era ancora in contatto con quella di Rhiannon, ma lo strano dualismo era finito. Il Maledetto lo aveva lasciato libero.

Eppure, attraverso quella soprannaturale empatia che esisteva ancora tra le due menti che per tanto tempo erano state una sola, Carse udì il richiamo appassionato di Rhiannon… un grido mentale che parve protendersi lontano, vibrare lontano, lungo il sentiero dello spazio e del tempo.

«Quiru, fratelli miei, ascoltatemi! Ho redento il mio antico delitto!»

E chiamò di nuovo, con tutta la selvaggia forza della sua volontà. Ci fu un prolungato silenzio, un nulla oscuro e silen zioso, e poi, gradualmente, Carse percepì l’avvicinarsi di al tre presenze, di altre menti, gravi, e potenti, e severe.

Non avrebbe mai saputo da quale lontano mondo erano giunte quelle presenze. Nel più remoto passato i Quiru erano partiti, seguendo quella strada che conduceva al di là dell’universo, nelle regioni cosmiche che si trovavano irrimediabilmente al di là della sua portata, e perfino delle sue capacità di comprensione. E ora, per breve tempo, essi erano ritornati, per rispondere all’appello di Rhiannon.

Confuse e fievoli come ombre, Carse vide materializzarsi delle forme di maestà quasi divina, apparizioni uscite dal nulla, tenui come scintillante fumo nel buio.

«Lasciatemi venire con voi, fratelli! Perché io ho distrutto il Serpente, e il mio peccato è redento!»

Parve allora che i Quiru meditassero, cercando la verità nell’animo di Rhiannon. Poi, finalmente, una figura si fece avanti, e posò la mano sulla bara. Le palpitanti, tenui fiamme che ardevano in essa si spensero.

«Alzati, Rhiannon: sei libero! Questo è il nostro giudizio.»

Uno strano senso di stordimento s’impadronì di Carse. La scena cominciò a impallidire. Vide che Rhiannon si alzava, e andava a raggiungere i suoi fratelli Quiru, mentre il suo corpo, allontanandosi, si faceva più fievole e indistinto.

Si voltò solo una volta, per guardare Carse, e ora i suoi occhi erano aperti, coirai di una gioia che la mente umana non avrebbe mai potuto comprendere.

«Conserva la mia spada, uomo della Terra… e portala con orgoglio; perché senza di te non avrei potuto distruggere Caer Dhu.»

Confusamente, con. la mente vacillante, Carse udì quell’ultimo comando mentale. E, avanzando a fatica, insieme a Ywain, attraverso il vortice nero, cadendo, ora, con una velocità d’incubo, attraverso quelle tenebre paurose, egli udì l’ultima eco vibrante dell’addio di Rhiannon.

Capitolo XX IL RITORNO

C’era la solida roccia sotto i loro piedi, finalmente. Si allontanarono dal vortice tenebroso, tremanti, arrancando sul terreno, strisciando, pallidi, sconvolti, incapaci di parlare, desiderando solo di uscire per sempre da quella cripta tenebrosa.

Carse trovò l’imboccatura del corridoio. Ma quando ne raggiunse la fine, venne oppresso brevemente dal terrore di essersi perduto di nuovo nel tempo, e non ebbe il coraggio di guardare fuori.

Non avrebbe dovuto avere paura. Rhiannon li aveva guidati con la sua sapienza, con la certezza di colui che conosceva i segreti del tempo e dello spazio. Era di nuovo tra le spoglie aride colline dell’antico Marte del suo tempo. Era il tramonto, e le vaste distese sabbiose del fondo del mare morto parevano ardere di luce rossastra. Il vento soffiava freddo e secco dal deserto, sollevando mulinelli di polvere, e in lontananza si vedeva apparire Jekkara… la Jekkara che lui conosceva, la città dei Canali Inferiori.

Ansioso, si rivolse a Ywain, guardando il suo viso, mentre lei stava fissando per la prima volta il mondo che Carse conosceva. Vide che lei stringeva le labbra, come per qualche profondo, pungente dolore.

Poi lei sollevò il capo, e sorrise, e sistemò meglio nel fodero l’elsa della spada.

«Andiamo,» disse, e mise di nuovo la mano in quella di lui.

S’incamminarono, iniziando la lunga, faticosa discesa per i pendii aridi e desolati e sabbiosi, e i fantasmi del passato erano tutt’intorno a loro. Ora, sopra le spoglie, aride ossa di Marte, Carse poteva vedere la carne viva che un giorno le aveva rivestite, in pieno splendore, gli alberi alti e la terra ricca, e seppe che non avrebbe mai potuto dimenticare.

Guardò laggiù, sul fondo asciutto del mare morto, e seppe che per tutti gli anni della sua vita avrebbe udito il rombante frantumarsi delle onde di un oceano spettrale.

Cadde la notte. Le piccole lune spuntarono, nel cielo senza nubi. La mano di Ywain era forte e sicura nella sua. Carse si accorse che una strana, immensa felicità stava nascendo dentro di lui, e già lo pervadeva, forte e impetuosa. Allora affrettò il passo.

Entrarono nelle strade di Jekkara, le strette strade sgretolate e nere sulla riva del Canale Inferiore. Il vento secco agitava le torce fumiganti, e il suono delle arpe era come lui lo ricordava, e le piccole donne brune camminavano nel tintinnio sommesso dei campanelli dei quali si adornavano.

Ywain sorrise.

«È sempre Marte,» disse.

Camminarono insieme, per le strade tortuose… l’uomo che portava ancora sul viso la cupa ombra di un dio e la donna che era stata regina. La gente si scostava al loro passaggio, voltandosi a guardarli, stupita, e la spada di Rhiannon era come uno scettro nella mano di Carse.

FINE
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