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Boghaz trasse un lunghissimo sospiro.

«Ywain potrà convincere i Sark,» disse poi. «Ma tu riuscirai a convincere lei?»

«Devo farlo,» disse Carse, con espressione cupa.

«Bene, allora… invochiamo l’aiuto della fortuna, e andiamo. E di fortuna abbiamo molto bisogno.»

Durante il tragitto lungo il corrdoio, i due avevano stabilito i particolari del loro piano; così, prima di raggiungere il luogo in cui Ywain veniva tenuta prigioniera, Boghaz lasciò indietro Carse, e andò a scambiare quattro chiacchiere con la guardia, che fu ben felice di avere qualche notizia su ciò che stava accadendo. Poi, nel bel mezzo di una frase, la voce del grasso Valkisiano tremò, e si spezzò, con un accento di sincerità assoluto. A bocca aperta, e con gli occhi sbarrati, guardò il corridoio, alle spalle della guardia.

L’uomo, sbalordito, si volse bruscamente.

Carse stava avanzando lungo il corridoio. Aveva l’incedere sicuro di chi sa di possedere il mondo, il mantello ondeggiava a ogni passo, gettato con arroganza dietro le spalle, la testa fulva era eretta, gli occhi lampeggiavano. L’ondeggiante, fumigante luce della torcia giocava stranamente con il suo volto, traeva armonie di bagliori dai gioielli del collare e della cintura, e la spada di Rhiannon era come uno scettro argenteo, dai bagliori sinistri, ch’egli stringeva nella mano.

Parlò, cercando di imitare gli accenti vibranti, possenti, che ricordava di avere udito nella grotta.

«Prostrati a terra e nascondi il tuo volto, spregevole figlio di Khondor… se non vuoi morire!»

L’uomo rimase immobile, come paralizzato, con la lancia sollevata a metà. Alle sue spalle, Boghaz lanciò un gemito di orrore, e balbettò:

«Per gli dei! Il demonio si è nuovamente impadronito di lui. È Rhiannon… libero!»

Alto nella luce rossastra della torcia, Carse aveva l’aspetto solenne di un dio; e in quei bagliori corruschi, egli sollevò la spada, non come un’arma, ma come un talismano di potenza. Si permise un sorriso.

«Così tu mi conosci. Buon per te.» Abbassò lo sguardo sulla guardia, il cui volto era spaventosamente pallido. «E tu dubiti, forse, mortale? Parla, che io possa insegnarti a conoscermi!»

«No,» l’uomo rispose raucamente, «No, Signore!»

Si inginocchiò. La lancia cadde sul pavimento di roccia, rumorosamente, sfuggendo alle mani tremanti del Khond. Poi la guardia si prostrò a terra, nascondendosi il volto tra le mani.

Boghaz balbettò di nuovo:

«Signore Rhiannon!»

«Legalo,» ordinò solennemente Carse, «E apri quella porta.»

Era fatta. Carse aveva calcolato bene la reazione della guardia… la reazione nata da un oscuro terrore superstizioso, più antico del tempo. Boghaz tolse le tre pesanti sbarre dagli anelli che le fermavano alla porta. La porta si aprì verso l’interno, e Carse avanzò, fermandosi sulla soglia.

Lei stava aspettando, in piedi, ritta e tesa nel buio della stanza. Non le avevano dato neppure una candela, e la piccola cella era chiusa… l’unico spiraglio era dato dalla feritoia della porta. L’aria era stantia e quasi irrespirabile, e c’era l’odore pungente della paglia umida, che veniva dal pagliericcio che era l’unica cosa che si trovasse in quel locale spoglio, orribilmente spoglio e disadorno. I polsi e le caviglie erano ancora serrati dalle catene con le quali i Khond l’avevano legata, al suo arrivo nella rocca. Doveva essere stata una prigionia terribile, la sua. Eppure, lei era eretta, e orgogliosa; non erano riusciti a piegarla.

Carse si fece forza, perché era giunto il momento di giocare la sua carta più importante. Si domandò se, nei più profondi recessi della sua mente, il Maledetto lo stesse osservando. Gli parve quasi di udire l’eco di una risata tenebrosa e beffarda, venata da una strana collera sorda… la risata che scherniva l’uomo che fingeva di essere un dio.

Ywain disse:

«Tu sei veramente Rhiannon?»

Cerca di dare alla tua voce quell’accento vibrante, indomabile… cerca di fare entrare nei tuoi occhi quel cupo, pensieroso ardore che può esistere soltanto negli occhi di un dio…

«Mi hai già conosciuto,» le disse, altezzosamente. «Cosa puoi dire, ora?»

Aspettò, mentre gli occhi di lei lo studiavano, penetranti, nella penombra che filtrava dal corridoio. E poi, lentamente, lei piegò il capo, rigidamente, altezzosamente, come si addiceva a Ywain di Sark, perfino davanti a Rhiannon.

«Signore,» disse.

Carse ebbe una breve, aspra risata, poi si rivolse a Boghaz, che se ne stava in un angolo, apparentemente spaurito.

«Avvolgila nelle coperte del giaciglio. Dovrai portarla in spalla… e trattala con delicatezza, maiale!»

Umilmente, Boghaz si affrettò a obbedire. Era evidente che Ywain era furibonda, al pensiero di venire trattata in maniera così umiliante, e sul viso della principessa di Sark c’era un’espressione tempestosa… ma non diede voce ai suoi pensieri, e non protestò.

«Fuggiamo, dunque?» chiese soltanto.

«Abbandoniamo Khondor al suo destino.» Carse strinse con forza la spada, «Io sarò a Sark, quando verranno i Re del Mare, e così potrò distruggerli io stesso, con le mie antiche armi!»

Boghaz le coprì anche il volto con la coperta, che era poco più di uno straccio sporco e lacero. L’usbergo e le catene che le serravano polsi e caviglie erano perfettamente nascosti; le coperte avvolgevano completamente il suo corpo. Il grasso Valkisiano si mise in spalla, allora, quello che a un occhio impreparato avrebbe potuto sembrare soltanto uno sporco fagotto di stracci. E facendo questo, si volse a Carse, e gli strizzò l’occhio, con espressione radiosa.

Ma Carse non era così sicuro della vittoria. In quel momento, aggrappandosi all’insperata opportunità di fuggire, di ritrovare la libertà quando già aveva pensato di cadere per mano dei suoi nemici, Ywain non avrebbe mostrato alcun dubbio, neppure se fosse stata convinta che Carse recitava una parte; perché la sua situazione le impediva di essere troppo critica.

Ma prima di giungere a Sark il viaggio era lungo.

Era stata soltanto una sua impressione, o nel suo atteggiamento c’era stata una lievissima sfumatura d’ironia, appena percettibile, quando aveva chinato il capo?

Capitolo XV

SOTTO LE DUE LUNE

Boghaz, grazie all’infallibile istinto della sua genia ladresca, aveva imparato a conoscere tutti i possibili nascondigli e i più riposti passaggi segreti che esistevano a Khondor. Non era stata vanteria, la sua, quando aveva detto questo a Carse. Per uscire dal palazzo, egli usò una via così abbandonata e disusata che la polvere era alta e intatta ovunque, e la porta del bastione quasi cadeva a pezzi, marcendo abbandonata da molto, moltissimo tempo. E poi, per scannate strette e ripide, dai gradini consumati e sgretolati in più punti, e vicoletti ripidi e strettissimi, tanto da non essere molto più che semplici fessure nella roccia, li guidò in un ampio giro intorno alla città.

Khondor ribolliva e tumultava di agitazione, e del fervore dei preparativi. Il fresco vento notturno portava l’eco di passi frettolosi e di voci concitate, tese e ansiose. L’aria vibrava del battito d’ali dei Celesti, nugoli di creature alate che andavano e venivano, stagliandosi nere contro lo sfondo del cielo palpitante di stelle.

Non c’era panico, in quell’attività febbrile; regnava anzi un certo ordine, che appariva doppiamente bizzarro, in quella situazione disperata. Ma Carse poteva avvertire la collera della città, l’ira sorda che pervadeva ogni gradino e ogni casa e ogni vicolo e ogni piazza, e la fosca, feroce tensione degli uomini che stavano per andare a combattere, in un assalto disperato contro un fato ormai ineluttabile. Dal lontano, antico tempio della città, Carse poteva udire le voci delle donne, un lamentoso, implorante salmodiare di preghiere rivolte agli dei.

Gli uomini frettolosi che incontravano lungo la strada non prestarono alcuna attenzione a loro. Quei due erano soltanto un grasso marinaio che portava un enorme fagotto, e un uomo alto e silenzioso, avvolto in un mantello… due uomini che scendevano verso il porto. Cosa poteva esserci di strano, in questo spettacolo? I Kliond lanciavano brevi occhiate, e passavano oltre.

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