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«Avrei potuto risparmiarti tutto questo, se tu mi avessi ascoltato. Stupidi e bambini, tutti quanti, che non mi avete voluto dare ascolto!»

«Va bene, allora… parla,» borbottò stancamente Carse, pronunciando con le labbra quello che la Presenza avrebbe potuto ugualmente leggere nella sua mente. «Ormai il male è fatto, e Barbadiferro sarà presto qui. Parla, Rhiannon… te lo permetto.»

E Rhiannon parlò, inondando la mente di Carse con la voce del suo pensiero vibrante, furiosa come un vento di tempesta prigioniero di un’angusta caverna, disperata, supplichevole.

«Se avrai fiducia in me, Carse, io potrò ancora salvare Khondor. Prestami il tuo corpo, concedimi di usarlo…»

«Anche se ormai sono ridotto alla disperazione, non sono ancora impazzito fino a questo punto.»

«Dei altissimi!» gridò, furibondo, il pensiero di Rhiannon. «E pensare che c’è così poco tempo…»

Carse avvertì, dentro di sé, la lotta che quella oscura presenza stava impegnando contro se stessa, per dominare la terribile collera che la pervadeva; e quando la voce mentale si fece udire di nuovo, essa era controllata, e calma, e vibrava di una sincerità terribile.

«Ho detto la verità, nella grotta. Tu sei stato nella mia Tomba, Carse. Quanto tempo credi che io abbia potuto giacere là, solo in quella spaventosa oscurità, fuori dello spazio e del tempo, senza cambiare? Io non sono un dio! Comunque possiate chiamarci, ora, noi Quiru non siamo mai stati dèi… ma solo una razza umana che venne prima delle altre.

«Mi chiamano il Maledetto, e per loro io sono la personificazione del male… ma non è vero! Sono stato orgoglioso e ambizioso, certo, e anche stupido, ma le mie intenzioni non erano malvage. Sono stato maestro della Stirpe del Serpente, perché essi erano intelligenti, e sapevano come adularmi… e quando essi usarono i miei insegnamenti per fini malvagi, io cercai di fermarli, e non vi riuscii, perché grazie ad essi avevano creato delle difese, e neppure i miei poteri riuscivano più a raggiungerli, a Caer Dhu.

«Fu per questo che i miei fratelli Quiru mi giudicarono. Mi condannarono a rimanere imprigionato al di là dello spazio e del tempo, nel luogo che avevano preparato per me, fino a quando i frutti del mio peccato avessero continuato a esistere su questo mondo. E poi mi abbandonarono.

«Noi eravamo gli ultimi della nostra razza. Non esisteva nulla che li trattenesse qui, non esisteva nulla che essi potessero fare. Essi cercavano solo la pace e la conoscenza. Cosi se ne andarono, seguendo la strada che avevano scelto. E io cominciai ad attendere. Riesci a comprendere quale attesa sia stata la mia?»

«Credo che tu lo meritassi,» disse Carse, cupo, ma dentro di lui si era creata un’improvvisa tensione. Fievole, esitante, aveva cominciato a scorgere la fiammella di una speranza…

Rhiannon continuò:

«Infatti. Ma la tua venuta mi ha offerto l’opportunità di riparare al male che ho fatto, di redimere il mìo peccato, in modo che io sia libero di seguire i miei fratelli.»

La voce mentale si fece ancor più intensa, vibrante di una passione che era forte, pericolosamente forte.

«Prestami il suo corpo, Carse! Prestami il tuo corpo, affinché io possa farlo!»

«No!» gridò Carse. «No!»

Balzò in piedi, e ora era consapevole del pericolo che stava correndo, e cominciò a combattere con tutte le sue forze contro quella presenza possente, imperiosa, violenta. La respinse, la ricacciò nel fondo degli oscuri meandri dell’inconscio, chiudendo tutte le barriere della sua mente, per impedirle di parlare ancora.

«Non puoi dominarmi,» bisbigliò. «Non puoi!»

«No,» sospirò amaramente Rhiannon. «Non posso.»

E la voce interiore tacque.

Carse si appoggiò alla parete di roccia, sudato, tremante, ma pervaso da un’ultima, disperata speranza. Per il momento, si trattava solo di un’idea appena formata, ma era sufficiente a spronarlo. Tutto, tutto era meglio di quell’attesa passiva della morte, come un topo in trappola.

Se gli dei della fortuna gli avessero concesso soltanto un po’ di tempo…

Dall’interno, gli giunse il rumore di una porta che si apriva, e l’imperioso alt delle guardie, e il suo cuore parve fermarsi per un momento. Rimase là, sul balcone battuto dal vento, immobile, trattenendo il respiro, in attesa di udire la voce di Barbadiferro.

Capitolo XIV

L’INCREDIBILE IMPOSTURA

Ma non fu la voce di Barbadiferro a rispondere all’imperiosa domanda delle guardie. Fu la voce di Boghaz. E fu Boghaz, da solo che uscì sul balcone, venendogli incontro, con un’espressione triste e abbattuta.

«È stata Emer a mandarmi qui,» disse. «Lei mi ha annunciato la tragica notizia, e allora ho sentito il bisogno di venire a dirti addio.»

Con immensa tristezza, afferrò la mano di Carse.

«I Re del Mare sono riuniti nell’ultimo concilio di guerra, prima della partenza per Sark, ma la loro riunione non durerà a lungo. Vecchio amico, quante cose abbiamo vissuto insieme, quanti pericoli e quante sofferenze abbiamo affrontato, fianco a fianco! Mi ero affezionato a te come a un fratello, e questa tremenda separazione che ora ci sovrasta mi fa sanguinare il cuore.»

Il grasso Valkisiano pareva sinceramente addolorato. Quando sollevò lo sguardo per fissare Carse, i suoi occhi erano colmi di lacrime.

«Oh, sì, come un fratello!» ripeté, con voce spezzata. «E come fratelli, abbiamo litigato, a volte, ma abbiamo anche valorosamente combattuto insieme. Un uomo non può dimenticare.»

Fece un profondo sospiro.

«Vorrei almeno avere qualcosa di tuo da conservare, amico. Un tuo ricordo, che mi terrà compagnia nei tristi giorni che mi aspettano. Un ninnolo, un ornamento… quel tuo collare gemmato, forse, la tua cintura… ormai non potrai più avvertirne la mancanza, e io li custodirò amorosamente per tutti i giorni che mi restano da vivere.»

Si asciugò una lacrima, e Carse lo afferrò rudemente per la gola.

«Ah, ipocrita canaglia!» ringhiò all’orecchio dell’attonito Valkisiano. «Un piccolo ricordo, eh? Un ornamento, magari? Per tutti gli dei, quasi c’ero caduto!»

«Ma, amico mio…» squittì Boghaz.

Carse gli diede un rude scrollata, e lo lasciò andare. Rapidamente, con voce sommessa, gli disse:

«Non ho ancora intenzione di spezzarti il cuore, se solo posso fare qualcosa per impedirlo. Ascoltami, Boghaz. Ti piacerebbe riacquistare la potenza della Tomba di Rhiannon?»

Boghaz spalancò la bocca.

«Pazzo,» mormorò. «Le troppe emozioni hanno fatto uscire di senno il mio povero amico.»

Rapidamente, Carse andò sulla soglia del balcone, e guardò nell’appartamento. Le guardie stavano oziando, abbastanza lontano perché non potessero udire. Non avevano alcun motivo per fare particolare attenzione a ciò che stava accadendo sul balcone. Erano in tre, armate, e indossavano un’armatura di maglia di ferro. Boghaz era disarmato, e Carse non avrebbe potuto fuggire, a meno che non si fosse fatto spuntare un paio d’ali; quali motivi potevano avere le guardie per preoccuparsi?

Rapidamente, il terrestre prosegui:

«Questa disperata avventura dei Re del Mare è condannata a concludersi miseramente. Non c’è speranza, per la loro flotta. I Dhuviani aiuteranno i loro alleati Sark, e Khondor sarà allora condannato. E questo significa che anche tu sei condannato, Boghaz. I Sark verranno qui, e se riuscirai a sopravvivere al loro attacco, cosa già molto difficile, ti scuoieranno vivo, e manderanno i tuoi resti come regalo ai Dhuviani.»

Boghaz rifletté su queste parole, e dall’espressione del suo viso Carse poté capire che i suoi pensieri non erano piacevoli.

«Ma…» balbettò il grasso Valkisiano. «Recuperare le armi di Rhiannon, ora… è impossibile! Anche se tu riuscissi a fuggire da qui, nessun mortale potrebbe penetrare nel territorio controllato da Sark, ora, e rubare quel tesoro di sotto il naso di Garach!»

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