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Il viso di Carse si mantenne inespressivo, non tradì alcuna emozione, neppure con il guizzo fugace di un muscolo, o con una contrazione delle labbra… ma la sua mente stava lavorando rapidamente, furiosamente, sull’elemento che il grasso furfante Valkisiano gli aveva fornito. Dunque, la Tomba di Rhiannon era un mistero, perduto e dimenticato, anche in quella remota epoca… proprio come lo era stata nel suo tempo?»

Si strinse nelle spalle.

«Io non so niente di Rhiannon, né della sua Tomba.»

Boghaz si accoccolò meglio sul pavimento, accanto a Carse, e gli sorrise, come si sorride a un bambino che desidera giocare, quando si vuole assecondarlo.

«Amico mio, tu non sei onesto con me. Non esiste uomo su Marte che non sappia che molto, moltissimo tempo fa, i Quiru lasciarono il nostro mondo a causa di ciò che aveva fatto Rhiannon, il Maledetto. Tutti sanno che prima di partire essi costruirono una tomba segreta, nella quale rinchiusero Rhiannon e tutti gli strumenti della sua potenza.

«C’è forse da stupirsi se gli uomini hanno cercato, da allora, di impadronirsi dei segreti degli dei? È strano, forse, se da allora gli uomini hanno cercato quella Tomba perduta? E adesso che tu l’hai trovata, io, Boghaz, posso forse biasimarti, se vuoi conservare solo per te il segreto?»

Batté amichevolmente la mano sulla spalla di Carse, e sorrise, un sorriso che increspò il suo volto bonario di luna piena.

«Da parte tua, questo non è né esecrabile, né ingiusto… è soltanto naturale. Ma vedi, il segreto della Tomba di Rhiannon è troppo grande, perché tu possa sperare di sfruttarlo da solo. Hai bisogno di aiuto, per farne buon uso… e, più precisamente, hai bisogno dell’aiuto del mio cervello. Insieme, con quel segreto, avremo l’intero Marte a disposizione, potremo fare di questo mondo ciò che vorremo.»

Carse disse, senza tradire alcuna emozione:

«Tu devi essere pazzo. Io non nascondo alcun segreto. Io ho comprato la spada da un mercante.»

Boghaz lo fissò a lungo, in silenzio. Lo guardò, con espressione afflitta. Poi sospirò profondamente, mestamente.

«Pensaci, amico mio. Pensaci bene. Non faresti meglio a dirmelo, senza obbligarmi a strappartelo con la forza?»

«Non c’è niente da dire,» affermò seccamente Carse.

Non aveva alcun desiderio di essere torturato. E sapeva che Boghaz non avrebbe esitato neppure per un momento a torturarlo, per fargli rivelare quel segreto senza prezzo. Ma in lui, era ritornato, con forza rinnovata, quell’oscuro istinto, quell’ammonimento strano, che aveva avvertito anche in precedenza. C’era qualcosa, nelle profondità del suo essere, qualcosa che lo aveva ammonito a non rivelare a nessuno il segreto della Tomba.

E in ogni modo, anche se avesse parlato, probabilmente il grasso Valkisiano l’avrebbe ucciso subito, per impedirgli di rivelare ad altri il prezioso segreto.

Con un’espressione infinitamente addolorata, con uno scintillio fugace di lacrime negli occhi, Boghaz scrollò le spalle enormi e grasse, e gli disse, in tono blando:

«Dunque, tu vuoi costringermi a ricorrere ai mezzi più estremi. Ed è una cosa che io detesto. Io, Boghaz, ho il cuore troppo tenero per sopportare questo genere di lavoro. Ma se proprio è necessario…»

Stava già portando la mano alla cintura, per prendere qualcosa dalla grossa borsa che vi era appesa, quando dall’esterno giunse un rumore di voci, e un calpestio affrettato di passi pesanti, nel vicolo esterno.

E, da fuori, una voce rude e autoritaria gridò:

«Ecco! Questa è la tana di quel furfante di Boghaz!»

Un pugno si abbatté sulla porta, con forza tale che la stanza riecheggiò come l’interno di un tamburo.

«Apri, presto, grasso furfante di Valkis!»

Subito dopo, dalle spalle robuste cominciarono a battere pesantemente sulla porta.

«Dei di Marte!» gemette Boghaz. «La soldataglia di Sark è riuscita a trovarci!»

Prese subito la spada di Rhiannon, e stava per nascondersi nel suo letto, quando sotto i colpi vigorosi le assi della porta cedettero, schiantandosi, e un drappello di soldati fece irruzione nella stanza, con le armi in pugno.

Capitolo V

GLI SCHIAVI DI SARK

Bogliaz si riprese, dando una splendida dimostrazione di prontezza di spirito e di sangue freddo. Si inchinò profondamente al capo degli armigeri, un gigante dall’enorme barba nera e il naso a becco, che indossava la stessa armatura nera che Carse aveva visto indosso ai soldati di Sark che avevano fatto irruzione nella piazza.

«Illustre Scyld, mio signore!» disse Boghaz, in tono umile e pomposo a un tempo. «Mi rammarico che la natura mi abbia fornito di un corpo così corpulento, rendendomi perciò lento e tardo nei movimenti, altrimenti per nulla al mondo avrei dato a lor signori il disturbo di abbattere la mia povera porta, soprattutto…» il suo faccione da luna piena era lo specchio della più completa innocenza, «Soprattutto perché già stavo per venire a cercarvi.»

Con un gesto ampolloso, indicò Carse, legato al pavimento.

«L’ho conservato per voi, vedete,» disse. «Sano e salvo.»

Scyld si mise i pugni sui fianchi, alzò la barbaccia appuntita nell’aria, e scoppiò in una cavernosa risata. Alle ’sue spalle, i soldati che erano entrati gli fecero eco, imitati ben presto dalla folla di Jekkara che li aveva seguiti, e che era rimasta fuori della porta. Ben presto, l’aria fu scossa dal ruggito di quella poderosa risata.

«L’ha conservato sano e salvo,» disse Scyld, «Per noi!»

E rise ancora più forte, imitato da tutti gli altri.

Scyld, ricomponendosi, fece due passi avanti, fermandosi proprio davanti a Boghaz.

«Perciò suppongo,» disse, «Che sia stata la tua lealtà a indurti in un primo tempo a strappare ai miei uomini questo cane Khond, facendolo scomparire proprio sotto i loro nasi.»

«Mio signore,» protestò Boghaz. «Questa plebaglia lo avrebbe ucciso.»

«È per questo che i miei uomini sono intervenuti… perché lo volevamo vivo. Un Khond morto non ci serve a nulla. Ma tu dovevi essere servizievole, Boghaz. Per fortuna, sei stato visto.» Allungò la mano, e toccò gli ornamenti rubati, che Boghaz portava intorno al collo. «Sì,» disse Scyld. «È stata una vera fortuna.»

Con un gesto fulmineo, strappò il collare e la cintura dal collo del grasso Valkisiano, ammirò il complesso gioco di luci sui gioielli, e poi infilò il tutto nella sua borsa. Fatto questo, si avvicinò al letto, dove la spada era parzialmente nascosta sotto le .coperte. La tirò fuori, saggiò il peso e l’equilibrio della lama, esaminò con noncuranza l’incisione sull’acciaio, e sorrise.

«Una vera arma,» disse. «Bella come la Signora… e altrettanto mortale.»

Usò la punta della spada per tagliare le corde che tenevano legato al pavimento Carse.

«In piedi, Khond,» disse, e fece seguire alle parole un incoraggiamento, con la punta del suo calzare.

Barcollando, Carse si alzò in piedi, e scosse il capo, per schiarirsi la mente. Poi, prima che i soldati potessero fermarlo, affondò un pugno tremendo nel grasso ventre di Boghaz.

Scyld scoppiò di nuovo a ridere. Aveva una risata grassa, profonda, da marinaio. Continuò a ridacchiare, mentre i suoi soldati allontanavano Carse dal grasso Valkisiano, che gemeva e ansimava, piegato in due per il dolore.

«Ora non c’è bisogno di questo,» gli disse Scyld. «Ne avrete tutto il tempo. Sapete, voi due avrete occasione di vedervi molto spesso, d’ora in poi.»

Carse vide che il volto di luna piena di Boghaz impallidiva, per l’effetto della comprensione di qualcosa di orribile. «Mio signore,» balbettò il Valkisiano, ancora ansimando. «Io sono un uomo leale. Io desidero soltanto servire gli interessi di Sark e di Sua Altezza, la Signora Ywain.» Pronunciando quel nome, s’inchinò profondamente. «Naturalmente,» disse Scyld. «E come potresti servire meglio Sark e la Signora Ywain, allo stesso tempo, che manovrando un remo della galera da guerra di Sua Altezza?» Boghaz stava impallidendo a vista d’occhio. «Ma mio signore…»

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