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«Voi non siete d’accordo?» domandò Carse.

Negli occhi di Shallah ardeva quella stessa luce strana, soprannaturale, che il terrestre già vi aveva visto una volta.

«Tu sei uno straniero,» disse lei, con voce sommessa e dolce, «Straniero per noi, e straniero per il nostro mondo. E ripeto che posso avvertire in te un’ombra oscura, un’ombra che mi fa paura, perché tu la porterai con te ovunque tu vada.»

Poi gli voltò le spalle, e Naram disse:

«Ora noi ritorniamo a casa.»

I due Nuotatori rimasero fermi, immoti, per un breve momento, sul basso parapetto. Ora essi erano liberi, liberi delle loro catene, e i loro corpi erano pervasi da una gioia intensa, una gioia così grande che quasi faceva male. Si inarcarono per un momento, tesi, sicuri, gioiosi, e svanirono al di là del parapetto.

Dopo un momento, Carse li rivide. Saltavano e s’immergevano gioiosi, come delfini, s’inseguivano e si superavano scherzosamente, si chiamavano con quelle loro voci limpide e dolci, sollevando dalle onde spruzzi di pura fiamma, traendo riverberi colorati dalla grande distesa bianca che giungeva al lontano, cupo orizzonte.

Deimos era già alto nel cielo della sera; gli ultimi chiarori del crepuscolo erano già svaniti, e Fobos apparve a oriente, come una nuova, luminosa scintilla, e cominciò la sua veloce scalata della grande, tenebrosa cupola del cielo notturno. Il mare si trasformò in una distesa di liquido argento. I Nuotatori si allontanarono veloci e sicuri, verso occidente, seguiti da due lunghe scie di fuoco, una traccia di argenteo scintillare che si fondeva in luce liquida e impallidiva poco a poco.

La galera nera faceva rotta per Khondor, con tutte le vele spiegate e turgide, giganti oscuri nello sfondo liquido del cielo notturno. E Carse rimase dov’era, ritto sulla piattaforma, con la spada di Rhiannon stretta tra le mani.

Capitolo X

I RE DEL MARE

Carse era appoggiato al parapetto, e stava guardando il mare, immensa distesa che lambiva il lontano orizzonte, quando giunsero i Celesti. Tempo e distanza erano ormai dietro le loro spalle e dietro la galera, come una lunga scia che seguiva la nave. E in quel periodo, Carse aveva potuto riposare. Ora indossava tin gonnellino pulito, e una nuova tunica, si era lavato e sbarbato, e ormai le ferite si erano rimarginate, sulla schiena e nel resto del corpo. Era ritornato padrone degli ornamenti che gli erano stati rubati, prima da Boghaz e poi da Scyld, e l’elsa della lunga spada sfavillava, con il suo fantastico gioiello, sopra la sua spalla sinistra.

Boghaz, in quel momento, era accanto a lui. Boghaz era sempre al silo fianco, dovunque egli andasse, in qualsiasi punto della nave si trovasse. Il grasso Valkisiano puntò il braccio verso il cielo occidentale, ed esclamò:

«Guarda lassù!»

Dapprima, Carse pensò che in lontananza fosse apparso un gran volo di uccelli, forse uno stormo che migrava al di sopra delle acque. Ma poi, mano a mano che si avvicinarono, diventarono sempre più grandi, e infine egli capì che si trattava di uomini, o meglio di quasi-umani, Halfling della stessa specie dello schiavo dalle ali mozzate.

Ma quelli non erano degli schiavi, e le loro ali erano spiegate, ampie e splendide e luminose, nei raggi gloriosi del sole, che pareva trarre da esse scintillii e lucori incantati. I loro corpi snelli, completamente nudi, erano lucenti come avorio levigato. E mentre sfrecciavano veloci nell’azzurro, scendendo verso la nave, parvero agli occhi di Carse di un’incredibile bellezza, una bellezza che le semplici parole e i semplici concetti umani non avrebbero mai saputo descrivere.

C’era un’affinità tra quelle splendide creature del cielo e i Nuotatori. I Nuotatori erano i perfetti figli del mare, e questi esseri erano fratelli del vento e della nube e delle limpide, profonde immensità del cielo. Era come se la mano maestra di un divino scultore li avesse foggiati entrambi, Nuotatori e Celesti, traendoli dai rispettivi elementi originari, modellandoli in sembianze di forza e grazia che li liberavano da ogni impaccio terreno degli esseri umani, legati alla terra e lenti e pesanti per il contatto con essa; perché l’ignoto artefice aveva fatto di loro dei sogni meravigliosi, materializzati in carne e sangue e felicità.

Jaxart, che in quel momento era al timone, gridò:

«Esploratori da Khondor!»

Carse salì sulla piattaforma. Gli uomini si radunarono sul ponte, seguendo con lo sguardo la discesa dei quattro Celesti che fendevano l’aria con le loro grandi ali.

Carse guardò verso prua, dove Lorn, lo schiavo alato, se ne stava in solitudine, ormai da giorni, cupo e triste e pensieroso, senza rivolgere la parola a nessuno, guardando il cielo e pensando forse alla perduta libertà delle sue ali mozzate. Ma ora il Celeste era in piedi, diritto e orgoglioso, e uno dei quattro uomini alati venuti dal cielo si posò accanto a lui.

Gli altri si posarono invece sulla piattaforma, ripiegando le ali luminose con un intenso fruscio.

Salutarono Jaxart, chiamandolo per nome, e poi guardarono con palese curiosità la lunga galera nera, e la ciurma di uomini duri e feroci che la governava; ma la loro curiosità si fissò soprattutto, e palesemente, su Carse. C’era qualcosa, in quel loro sguardo penetrante, che ricordò al terrestre gli occhi di Shallah, e quel pensiero gli diede una bizzarra inquietudine, uno strano, prolungato brivido senza un vero motivo.

«Questo è il nostro capo,» disse Jaxart. «Un barbaro che viene di lontano, da regioni selvagge e sconosciute di Marte, ma anche un uomo valoroso, e pronto di spirito e d’ingegno. Certo i Nuotatori vi avranno raccontato tutto, vi avranno narrato in qual modo egli si sia impadronito, allo stesso tempo, della nave e di Ywain di Sark.»

«Sì.» Essi si rivolsero a Carse, e lo salutarono, con espressione grave e solenne.

Il terrestre disse:

«Jaxart mi ha detto che tutti coloro che combattono Sark possono vivere da uomini liberi, nella libertà di Khondor. Io chiedo di potere esercitare questo diritto.»

«E noi porteremo la tua domanda a Rold, che regge il Consiglio dei Re del Mare di Khondor.»

I Khond che si trovavano sul ponte, mescolati alla ciurma, cominciarono a chiamare i Celesti, gridando i loro messaggi, le loro domande, le parole ansiose di uomini che erano stati per troppo tempo lontani da casa e dalle loro famiglie, che avevano conosciuto una dura schiavitù e avevano forse disperato di poter riacquistare un giorno la libertà perduta. Ci furono molte domande, e i Celesti risposero a tutti, con la loro voce limpida e melodiosa, e dopo qualche tempo, quando il tumulto e la commozione si furono quietati, essi spiccarono di nuovo il volo dalla piattaforma, con le grandi ali spiegate, sfrecciando nell’azzurro, sempre più in alto, fino a scomparire in lontananza, come minuscoli punti sfavillanti.

Lorn rimase a prua, diritto, e li seguì con lo sguardo, fino a quando non rimase altro che l’immensità azzurra e deserta del cielo, dall’uno all’altro orizzonte.

«Presto saremo a Khondor,» disse Jaxart, e Carse si voltò, per rispondergli. Ma un oscuro, improvviso istinto lo indusse a voltarsi di nuovo, a guardare verso prua, e allora vide che Lorn era scomparso.

Non c’era alcun segno del Celeste nell’acqua bianca e lucente. Si era gettato in mare in silenzio, e doveva essere affondato di peso, come un uccello che annega, trascinato dal peso delle sue inutili ali.

Jaxart aveva seguito la direzione dello sguardo di Carse, e dopo qualche istante fu lui a rompere il silenzio, borbottando:

«L’ha voluto lui, ed è stato meglio.» Poi aggiunse un’aspra imprecazione contro i Sark, e Carse sorrise, un sorriso amaro e minaccioso a un tempo.

«Coraggio,» disse. «Possiamo ancora batterli, e far pagare loro tutto ciò che hanno fatto. Dimmi… come mai Khondor ha saputo resistere, là dove Valkis e Jekkara sono cadute?»

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