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Tutti si affrettarono a scuotere il capo, e Rold disse:

«No. Ma in questo caso, la tua parola non è sufficiente.»

«Benissimo, allora, dimenticate la mia parola. C’è il modo per dimostrare se egli sia davvero Rhiannon, o se non lo sia. Che egli passi la prova davanti ai Sapienti!»

Rold si accarezzò la barba, lentamente, pensieroso.

«Il tuo consiglio è saggio,» ammise, e gli altri fecero eco al suo assenso.

«Sì… che egli sia sottoposto alla prova dei Sapienti!»

Rold si rivolse a Carse.

«Sei disposto a sottoporti alla prova?»

«No,» rispose Carse, furibondo. «Non mi sottoporrò a nessuna prova. Al diavolo tutte le vostre pazze superstizioni! Se offrendovi il segreto della Tomba non riesco a convincervi di essere dalla vostra parte… ebbene, farete senza la Tomba, e senza di me.»

Il volto di Rold s’indurì.

«Nessuno ti farà del male. Se tu non sei Rhiannon, non hai nulla da temere. Te lo chiedo di nuovo: sei disposto a sottoporti alla prova?»

«No!»

Cominciò ad avanzare a grandi passi sul palco, dirigendosi verso il punto in cui i suoi uomini erano tutti riuniti, come lupi ringhiosi impazienti di dare battaglia. Ma Thorn di Tarak fu lesto a fargli lo sgambetto, mentre egli gli passava accanto, facendolo cadere, e gli uomini di Khondor circondarono la ciurma della galera.

Carse si dibatté come un gatto selvatico, tra i Re del Mare che cercavano di sopraffarlo, resistette con tutte le sue forze al loro attacco, in una breve vampata di collera impotente, una collera che doveva sfogarsi in qualche maniera… lottò disperatamente, fino a quando, con un’espressione di rammarico dipinta sul volto gioviale, Barbadiferro non lo colpì alla testa con il corno di rame nel quale aveva bevuto il suo vino, facendolo stramazzare sul palco, inerte, mentre nella sua mente calavano le tenebre dell’incoscienza.

Capitolo XII

IL MALEDETTO

Il sudario di tenebre si sollevò, lentamente. La prima cosa della quale Carse si accorse fu il suono… il rumore lento, frusciante di acqua molto vicina a lui, e il rugghiare soffocato di onde che s’infrangevano contro una parete di roccia. Erano gli unici rumori che udiva; per il resto, c’era un senso incombente di immobilità e di attesa.

Poi venne la luce, un chiarore soffuso, dolce. Quando egli aprì gli occhi, vide in alto, su di lui, una stretta valle di stelle, vivide e scintillanti, una valle scavata nella roccia, che, più in basso, formava tin arco naturale dalle incrostazioni cristalline che diffondevano intorno una luminescenza tenue, pallida e costante.

Lui si trovava in una caverna marina, una grotta che conteneva uno stagno di fuoco latteo. Quando gli si schiarì la vista, notò che c’era una parete di roccia, dal lato opposto dello stagno, e su quella parete c’erano degli scalini, che sparivano in alto, e giungevano là dove, sulla roccia, c’era una specie di terrazza naturale, uno stretto costone che dominava lo stagno. E su quella terrazza di roccia c’erano tutti i Re del Mare, con Ywain e Boghaz incatenati, e i capi dei Nuotatori e dei Celesti. Gli sguardi di tutti erano fissi su di lui, e nessuno parlava.

Carse scoprì di essere legato a una sottile guglia rocciosa, in piedi, completamente solo.

Emer era diritta davanti a lui, immersa fino alla vita nell’acqua lattea e luminosa dello stagno. Tra i suoi seni la perla nera mandava riverberi foschi, e l’acqua fosforescente scendeva dai suoi capelli, come un ruscello di diamanti. La fanciulla teneva tra le mani una grande gemma grezza, di un colore grigio opaco, e nebulosa, come un’immagine vista attraverso un velo d’acqua o di sogno.

Quando la fanciulla vide che gli occhi del terrestre erano aperti, disse, con voce limpida:

«Venite, o miei maestri! È il momento.»

Un sospiro di rammarico parve mormorare per tutta la grotta. La superficie dello stagno s’increspò, con un tremolio di fosforescenza, e le acque si aprirono quiete, lasciando uscire tre figure che nuotarono lentamente, venendo accanto a Emer. Erano le teste di tre Nuotatori, canute per gli anni.

I loro occhi erano le cose più spaventose che Carse avesse mai visto. Perché erano occhi giovani, splendenti di una strana gioventù aliena che non apparteneva al corpo, e in essi c’erano una saggezza e una forza che lo sgomentarono.

Ancora in parte stordito dal colpo vibratogli da Barbadiferro, cominciò a divincolarsi, a tendere le corde che lo tenevano prigioniero, e sopra di lui udì un fruscio, che pareva il battito d’ali di grandi uccelli risvegliati da un lungo, profondo sonno.

Sollevando lo sguardo, allora, egli vide sugli speroni di roccia immersi nella penombra, in alto, tre figure torve, le vecchie, vecchissime aquile dei Celesti, con le ali stanche, e anche nei loro occhi ardeva la luce della saggezza che nulla aveva a che spartire con la carne.

Allora ritrovò le forze, e la parola. Gridò tutta la sua collera, e si divincolò furiosamente, nel futile tentativo di spezzare le corde che lo avvincevano, e sotto la volta echeggiante della grotta la sua voce aveva un suono strano, vuoto e tenebroso, e nessuno rispose, e le funi erano strette, e non c’era possibilità alcuna di liberarsi.

Infine, capì che tutti i suoi sforzi erano inutili. Allora si arrese, stanco e ansante, appoggiando la schiena alla guglia di roccia.

Dall’alto giunse un mormorio rauco, un bisbiglio lieve e sicuro.

«Sorellina… solleva la pietra del pensiero.»

Emer levò alta la gemma nebulosa che reggeva tra le mani.

Fu uno spettacolo strano, spettrale e fantasmagorico. Dapprima, Carse non riuscì a capire. Poi vide che, mentre gli occhi di Emer e dei Sapienti si offuscavano, il grigiore nebbioso della gemma pareva schiarirsi, e illuminarsi di luce propria.

Pareva che tutta la potenza delle loro menti unite si riversasse nel punto focale del cristallo, fondendosi, attraverso di esso, in un solo, intenso raggio. E in quel momento, avvertì la pressione di quelle menti unite nello sforzo sulla sua mente!

Confusamente, Carse intuì quello che essi stavano facendo. I pensieri della mente cosciente erano una minuscola pulsazione elettrica attraverso i neuroni. Quella pulsazione elettrica poteva essere attutita, e neutralizzata, da un impulso contrario e più potente, come quello che Emer e i Sapienti stavano concentrando su di lui, servendosi di quel cristallo elettrosensitivo come di una lente, che raccoglieva e faceva convergere su di lui l’intensità della loro forza mentale.

Quei primitivi non potevano certo conoscere il principio scientifico sul quale si basava il loro attacco sulla sua mente! Nessuno, sul pianeta Marte di quel tempo, conosceva abbastanza la scienza per poterne sfruttare anche i concetti più elementari. Ma quegli Halfling, certamente quelli dotati dei poteri extrasensoriali più forti, dovevano avere scoperto, già nel più remoto passato, attraverso qualche fortuita combinazione di eventi, che quei particolari cristalli avevano il potere di concentrare i separati impulsi delle loro menti, e avevano usato qtiella scoperta, come accadeva presso tutti i popoli primitivi, senza conoscere neppure l’ombra dei principi scientifici sui quali essa era in realtà basata.

«Ma io posso tenerli a bada,» mormorò tra sé Carse, ansioso. «Posso tenerli a bada tutti! Non riusciranno a entrare nella mia mente!»

Lo infuriava, quel battere calmo, impersonale, alle porte della sua mente, nel tentativo di abbattere le sue difese, di scoprire i suoi pensieri, nudi, per i loro occhi. Combatté quella forza con tutta la sua volontà, con tutta l’energia che era rimasta nel suo corpo e nella sua mente, combatté duramente, ma non fu sufficiente.

E poi, come già era accaduto quando egli aveva affrontato le stelle melodiose, suadenti, del Dhuviano, gli venne in aiuto una forza ignota, che era in lui eppure non pareva appartenergli, una forza scaturita da qualche profondità, da qualche recesso della mente del terrestre, che egli neppure sospettava di possedere.

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