Potter alzò lo sguardo e fissò la striscia di cielo incorniciata dagli edifici che circondavano la piazza. La sua mente, concentrata sulla modifica a cui era stato sottoposto l’embrione dei Durant, si era imbattuta in una nuova ipotesi. Non vedeva più il cielo. La sua coscienza era ancora una volta immersa all’interno della cellula brulicante di vita, seguiva il mitocondrio come un pescatore subacqueo la sua preda.
«Potrei ripeterlo,» sussurrò Potter.
«Silenzio,» gli intimò la guida.
Potter annuì. Su di un qualsiasi embrione, pensò. La chiave è l’irrorazione d’arginina. E io potrei duplicare il fenomeno, basandomi sulla descrizione di Svengaard. Dèi! Potremmo creare milioni di embrioni simili a quello dei Durant: tutti fertili e vitali!
Respirò profondamente, turbato dalla consapevolezza che — una volta cancellato il nastro — la sua memoria poteva rivelarsi l’unica fonte di informazioni per poter replicare il procedimento. Svengaard e l’addetta al computer ne avevano potuto osservare soltanto una parte. Ma loro non erano stati lì dentro, immersi nel cuore della cellula.
Un qualsiasi abile bioingegnere avrebbe potuto dedurre ciò che era successo ed essere capace di replicarlo in base alle registrazioni parziali, se solo gli fosse stato sottoposto il problema. Ma chi si sarebbe curato di farlo? Di certo non gli Optimati. E neppure quello sciocco di Svengaard.
La guida tirò Potter per la manica.
Potter fissò quel volto inespressivo e dagli occhi gelidi, di cui non riusciva a riconoscere il tipo genetico.
«Siamo osservati,» lo avvertì la guida in tono stranamente piatto. «Mi ascolti molto attentamente: È in gioco la sua vita.»
Potter scosse la testa, ammiccò. Gli parve quasi che la propria coscienza fosse scomparsa; era divenuto un fascio di sensi che registravano le parole e le azioni dell’altro.
«Entrerà in quella porta davanti a noi,» gli disse la guida.
Potter si voltò, fissò la porta. Due uomini che trasportavano dei pacchi incartati emersero dal vicolo di fronte, attraversarono in fretta la piazza. La guida li ignorò. Potter udì un suono di giovani voci diventare sempre più forte nel vicolo. La guida ignorò anche quelle.
«Una volta entrato in quell’edificio, prenderà la prima porta a sinistra,» continuò poi. «Vedrà una donna addetta ad un centralino. Le dirà: "Mi fa male una scarpa". Lei risponderà: "Ognuno ha i suoi problemi". Da quel momento in poi, la donna si prenderà cura di lei.»
Potter ritrovò la voce: «E se lei… non è lì?»
«Allora passi per la porta alle spalle della sua scrivania, attraversi l’ufficio, e troverà un corridoio. Giri a sinistra e raggiunga il retro dell’edificio. Vi troverà un uomo che indossa l’uniforme da supervisore al carico, a strisce grigie e nere. Ripeterà con lui la procedura che le ho illustrato.
«E lei?» chiese Potter.
«Di questo non deve preoccuparsi. Adesso, si sbrighi!» La guida gli diede uno spintone.
Potter barcollò verso la porta proprio mentre dal vicolo spuntava una donna in uniforme da insegnante che guidava una fila di bambini, che lo separò dalla porta.
I sensi sconvolti di Potter registrarono la scena: i bambini, tutti vestiti con pantaloncini aderenti che rivelavano le loro lunghe gambe da fenicottero. Improvvisamente lo circondarono e Potter fu costretto ad aprirsi la strada verso la porta.
Alle sue spalle, qualcuno gridò.
Potter si acquattò contro la porta, trovò la maniglia, si voltò indietro a guardare.
La guida aveva girato intorno alla fontana, che adesso la nascondeva dalla cintola in giù, ma quello che era visibile del suo corpo fu più che sufficiente a sbalordire Potter, immobilizzandolo sul posto. Il petto dell’uomo era nudo e rivelava una cupola di un bianco latteo da cui scaturiva una luce accecante.
Potter spostò lo sguardo verso sinistra, vide una fila di uomini che stavano uscendo da un altro vicolo venire carbonizzata da quella luce ardente. I bambini stavano gridando, piangevano, tentavano di ritornare nel vicolo, ma Potter li ignorò, affascinato dallo spettacolo di quella macchina assassina che lui aveva pensato fosse un essere umano.
Una delle braccia della guida si sollevò, venne puntata verso l’alto. Dalle dita tese, saettarono raggi di luce azzurra. E dove essi terminavano, aeromobili precipitavano dal cielo. L’atmosfera circostante era divenuta un inferno crepitante di ozono, punteggiata da esplosioni, urla, grida rauche.
Potter rimase a fissare quella scena, incapace di muoversi, dimentico delle istruzioni che aveva ricevuto e della sua mano poggiata sulla maniglia.
La guida era ormai bersagliata dal fuoco di risposta. I suoi vestiti si raggrinzirono, svanirono in uno sbuffo di fumo, rivelando un corpo corazzato i cui muscoli dovevano essere stati forgiati in fibre di plasmeld. I raggi mortali continuavano a scaturire dalle mani e dal petto.
Potter scoprì che non poteva più resistere a quello spettacolo. Spalancò la porta, avanzò barcollando nella penombra di un atrio dalle pareti dipinte di giallo. Chiuse la porta mentre un’esplosione scuoteva l’edificio. La porta tremò sui cardini.
Sulla sua sinistra, si spalancò una porta. Un’esile donna bionda e dagli occhi azzurri si fermò a fissarlo. Stranamente Potter si sfrozò di riconoscere le sue caratteristiche genetiche, e fu rassicurato dal tocco d’umanità che esse gli comunicarono. Alle spalle della donna, Potter scorse il centralino.
«Mi fa male la scarpa,» disse allora.
Lei deglutì. «Ognuno ha i suoi problemi.»
«Sono il Dottor Potter,» si presentò lui. «Penso che la mia scorta sia stata appena uccisa.»
La donna si scostò dalla porta, disse, «Entri.»
Potter entrò barcollando in un ufficio in cui erano visibili file e file di scrivanie deserte. La sua mente era sconvolta da ciò che sottintendevano le scene di violenza a cui aveva appena assistito.
La donna lo tirò per un braccio, lo guidò verso un’altra porta. «Da questa parte,» disse. «Dobbiamo passare per i condotti di servizio. È l’unico modo. Questo posto verrà circondato in pochi minuti.».
Potter si fermò, puntando metaforicamente i piedi. Non si era aspettato la violenza. Non aveva saputo cosa aspettarsi, ma di certo non aveva pensato alla violenza.
«Dove stiamo andando?» chiese. «Cosa volete da me?»
«Non lo sa?» replicò la donna.
«Lui… non me l’ha detto.»
«Tutto le verrà spiegato,» affermò lei. «Ma ora si sbrighi.»
«Non mi muoverò neppure di un millimetro finché non me lo dirà,» si impuntò Potter.
La donna pronunciò un’imprecazione volgare. Poi disse, «Se è proprio necessario, allora lo farò. Lei dovrà inserire l’embrione dei Durant nella madre. È l’unico modo in cui possiamo portarlo fuori di qui.»
«Nella madre?»
«Come si faceva nell’antichità,» spiegò lei. «So che è disgustoso, ma è l’unico modo. Ora, però, si sbrighi!»
Potter le permise di trascinarlo oltre la porta.