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La barca si fermò accanto a me. Eddie si sporse in fuori e mi tirò a bordo. Mi abbracciò. — Lixia! Stai bene?

— Sì. — Mi tenni stretta a lui. Tremavo e avevo la sensazione che mi cedessero le ginocchia.

— Portala dentro — disse la Ivanova. Come sempre, la sua voce mi colse di sorpresa. Era una profonda voce di contralto che sarebbe dovuta appartenere a un’attrice o a una cantante. — Di’ ad Agopian di venire qua fuori. È necessario fare qualcosa riguardo a quel fuoco.

Un minuto dopo ero nella cabina. C’era un tappeto sotto i miei piedi nudi. Eddie mi aiutò a sedermi in una poltroncina. Mi appoggiai allo schienale e sentii la stoffa attraverso la camicia: un tessuto ruvido, molto probabilmente fatto a mano.

Tenevo le braccia appoggiate sui braccioli della poltroncina. Piegai le dita al di sotto e sentii il tubo di metallo. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che ero stata seduta così, in alto, lontano dal suolo, in una poltrona con uno schienale? Non me lo ricordavo.

Eddie si chinò su di me, l’espressione preoccupata. C’erano altre persone alle sue spalle. Una donna, membro dell’equipaggio, con un viso centroasiatico. Un uomo che sembrava vagamente mediorientale. Un uomo alto e biondo con una tuta azzurro chiaro.

L’uomo biondo mi sorrise e fece il gesto che significava "benvenuta".

Derek.

Eddie disse qualcosa alle persone dell’equipaggio, che uscirono.

Derek domandò: — Stai bene?

— Sì. Eddie, mi sei addosso.

— Scusa.

Si sedettero entrambi. Guardai Derek. — Tu come stai? Che cosa è successo? Sai che cosa sia successo agli altri?

Lui fece il gesto che significava che non sapeva. — Mi sono ritrovato da solo. Dev’essere stato lo stesso per te.

— Sì.

— Ho perso la barca non appena si è capovolta e mi sono aggrappato a un albero che era rimasto impigliato nelle rapide. — Sorrise. — Ero lì, nel bel mezzo delle rapide, che mi tenevo a quel dannato tronco d’albero e mi chiedevo che cosa fare in seguito. Non vedevo nessuno. Non avevo idea di cosa fosse capitato agli altri.

— Che cosa hai fatto?

— Non era il posto adatto per nuotare, ne ero abbastanza sicuro. E non ho mai fatto nessuna esperienza di nuoto nell’acqua turbolenta. Mi sono dato da fare per liberare il tronco e uscire galleggiando dalle rapide.

Feci il gesto che significava "bravo" o "ingegnoso".

— È quello che ho pensato anch’io prima di scoprire come sia difficile manovrare un albero. Soprattutto questo. Era progettato molto male, almeno per la navigazione. Può darsi che avesse fatto bene la sua parte nella precedente attività. — Derek lanciò un’occhiata a Eddie. — Ti racconterò il resto più tardi.

Eddie si protese in avanti. — Sei sicura di sentirti bene, Lixia?

— Non mi fa male niente. Non ho ferite. Sono stanca, e quanto prima avrò voglia di mangiare, ma non adesso.

— Okay. — Si alzò in piedi. — Devo parlare con la Ivanova. Ci sono decisioni da prendere e lei le prenderà da sola se non andrò subito là fuori. Derek, occupati tu di Lixia.

— Le tue parole sono ordini per me.

— Piantala con le fesserie.

Eddie uscì dalla cabina. Mi guardai attorno, vedendo pareti curve e finestre ovali. Il tappeto sul pavimento era di un colore neutro: grigio o marrone chiaro. Tutto l’arredamento dava l’impressione di poter essere piegato o smontato o trasformato in qualcos’altro. I divani lungo le pareti, per esempio. Era evidente che diventavano letti. E i tavolini fra di essi si piegavano dentro le pareti. Le nostre poltroncine avevano cerniere. Era una dimora da nomadi. Mi venne in mente che stavo passando tutta la mia vita viaggiando.

— Ho i miei ordini — disse Derek. — Che cosa ti serve? O che cosa vuoi?

— Ancora niente. Dammi un minuto.

Fece il gesto del tacito consenso.

Chiusi gli occhi. Il tempo passò. Il rumore del motore cambiò. Aprii gli occhi e mi alzai. L’imbarcazione si stava allontanando dalla mia isola. La spiaggia, la mia spiaggia, era deserta. C’erano state delle persone, vedevo le loro orme nella sabbia, e il mio fuoco era coperto di schiuma gialla. La schiuma si stava sciogliendo sotto la pioggia e grondava dai rami, formando una pozza di acqua giallognola. Nella pozza galleggiavano chiazze di schiuma.

Orribile!

Oltrepassammo il groviglio di tronchi galleggianti e risalimmo il fiume verso le rapide.

— Dove stiamo andando?

Derek fece il gesto che significava che non sapeva.

L’uomo basso, Agopian, entrò nella cabina. Chiuse la porta. — La Ivanova mi ha chiesto di prendermi cura di te. È impegnata in una discussione con Eddie.

— Riguardo a che cosa?

— Se cercare o no i tuoi compagni. Eddie dice di no, com’era prevedibile. La Ivanova sostiene che un cosmonauta non si rifiuta mai di cercare persone che potrebbero essere vive e in difficoltà. Nello spazio possiamo solo contare gli uni sugli altri. Che cosa posso fare per te?

Presi una decisione. — Qualcosa da mangiare.

— Non abbiamo una cucina vera e propria. Posso offrirti un sandwich.

— Okay.

Attraversò la cabina, da poppa a prua, e uscì da un’altra porta. Si accese una luce e lo vidi chinarsi e guardare dentro qualcosa: un elemento per cucina. — Abbiamo insalata di uova, caviale, cipolla e pomodoro, e qualcosa che pretende di essere fegato di pollo tritato su pane nero russo.

Feci il gesto della domanda. Lui parve perplesso. Dissi: — Che cosa intendi con "pretende"?

— Io sono armeno e gli armeni hanno la memoria lunga. Ricordo il gusto del pane nero russo. Abbiamo rinunciato a un sacco di cose per andare sulle stelle.

Abbastanza vero. Feci il gesto dell’approvazione.

— Che cosa vuoi? — domandò Agopian.

— Insalata di uova, se non è su pane nero.

— Segale. Non eccezionale, ma accettabile. Vuoi acqua minerale o birra? Abbiamo anche acqua del luogo, distillata ed esente da qualunque cosa che possa essere nociva.

— Acqua minerale.

Tornò portando il cibo. Il sandwich era avvolto nella carta, l’acqua era in una bottiglia di vetro. Su un lato c’era la stampigliatura "Si prega di restituire per il riciclaggio". C’era una scheggiatura sul fondo.

Aprii la bottiglia. L’acqua spumeggiò. Ne bevvi un po’, poi tolsi il sandwich dalla carta e ne mangiai un boccone. Era delizioso. Mi sforzai di mangiare adagio, fermandomi dopo ogni boccone a bere l’acqua, che aveva un leggerissimo gusto di agrumi.

— Derek? — disse Agopian.

— Per me niente.

L’uomo tornò nella cambusa e ne uscì con un’altra bottiglia. Questa era ambrata più che trasparente. Con ogni probabilità conteneva della birra. Si sedette e aprì la bottiglia. Dopo di che ci fu un momento di silenzio. Io mangiavo. Derek appariva stanco, soddisfatto di non fare niente. Agopian beveva la sua birra.

— Certo, ci sono anche dei vantaggi — disse alla fine.

— Che cosa? — domandò Derek.

— Nell’andare fra le stelle. Quando ero ragazzo, avevo due ambizioni. Prendere parte a una rivoluzione e camminare su un altro pianeta alla luce di un altro sole. Una l’ho realizzata, e a seconda del significato che si dà alla parola rivoluzione, può darsi che realizzi anche l’altra. L’incontro con questi individui, i nativi di qui, cambierà la nostra storia.

Finii il sandwich e mi leccai le dita, poi feci il gesto dell’assenso.

— Che cosa significa? — domandò Agopian.

— Sì. Okay. Sono d’accordo con te — rispose Derek.

— Il tuo inglese è eccellente — osservai.

Lui annuì. — Sono stato a Detroit per due anni, quasi tre, a studiare alla Scuola di Storia del Lavoro.

— Sei uno storico? E fai parte dell’equipaggio?

— Ho una laurea in… quale sarebbe la traduzione esatta? Scienza dei computer? Teoria dei computer? Non ingegneria dei computer. So lavorare con le macchine e so parecchio sul modo in cui interagiscono con gli umani. Ma non so affatto che cosa succeda al loro interno.

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