Prese lentamente. Aggiunsi foglie secche e frammenti di corteccia. Le fiamme lambirono i bianchi rami contorti. Si levò il fumo. Il calore era intenso. Arretrai e mi guardai attorno. Il cielo era sgombro all’infuori delle nuvole e della foschia.
Non c’era nessun altro che faceva segnalazioni.
Abbi pazienza, mi dissi. Aggiunsi altra legna.
Tenni il fuoco acceso per buona parte del pomeriggio. Si ammassarono altre nuvole e incominciò a soffiare il vento. Invece di salire verso l’alto, la mia scia di fumo si allungava di lato. Andai a prendere il mio pesce e lo uccisi, lo pulii e lo arrostii fra le braci ai margini del fuoco.
Ora c’erano creste spumeggianti sul fiume e il tuono brontolava verso ovest. Mangiai il pesce. Sapeva di fango. Avrei dovuto tenerlo vivo per tre giorni in acqua corrente pulita o altrimenti affumicarlo. Era quello che si faceva con la carpa. Mi leccai le dita. Inominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, sibilando nel fuoco. Mi misi al riparo degli alberi.
Guizzavano i fulmini e i tuoni facevano rumori assordanti. La pioggia veniva giù a torrenti che spazzavano il fiume, gonfiandosi di fronte al vento. Mi raggomitolai sotto un cespuglio mentre l’acqua grondava fra le foglie sovrastanti, formando pozze sul terreno.
Finalmente il temporale si spostò verso est. La pioggia cessò. Uscii strisciando da sotto il mio cespuglio, mi tolsi i vestiti e li strizzai, poi andai a controllare il mio fuoco. La legna era fradicia. Non c’era modo di riaccenderlo. Forse l’indomani.
Ma il giorno seguente era tutto ancora bagnato e trascorsi la giornata a cercare provviste. I calamari erano spariti. Trovai nuovi bruchi e l’albero dai frutti color blu indaco. L’albero aveva il tronco diritto e i frutti si trovavano molto in alto. Non era un problema. I rami erano pieni di animali. Restai lì in attesa. Gli animali incominciarono ad agitarsi. Stridevano e fischiavano.
— Altrettanto a voi — dissi.
Lanciarono frutta e io la raccolsi. Loro fecero versi ancora più furiosi.
— Idem.
Misi altre esche nella mia trappola e riaccesi il fuoco per cucinare, poi mi feci un nuovo pannolino. Il flusso era quasi cessato. Ancora un giorno o due e sarei stata in grado di lasciare l’isola.
Mangiai pesce freddo e un frutto come dessert, quindi passai il pomeriggio riposando. Verso il tramonto controllai la trappola. Niente. La calai di nuovo nell’acqua e sentii un rumore. Guardai in su. Uccelli. Erano così in alto che non riuscivo a distinguere alcun particolare. Senza dubbio erano numerosi. Lo stormo si estendeva da nord a sud in ogni direzione fin dove riuscivo a vedere. Era un branco che ondeggiava in continuazione, allargandosi, poi restringendosi, a volte frantumandosi per poi riformarsi. C’erano migliaia di uccelli lassù. Forse milioni. Si lanciavano richiami mentre volavano e le loro grida erano acute e stridule e si udivano chiaramente nonostante la distanza. Andarono avanti così. Non avevo mai visto tanti uccelli in una volta sola.
Finalmente si vide la fine dello stormo. Alcuni sbandati, gruppetti secondari, che seguivano tutti gli altri. Un centinaio qui, duecento là. Volavano a sud, gridando: — Ehi, aspettateci.
Poi il cielo tornò a essere vuoto. Risalii sulla riva.
Una migrazione autunnale. Le lucertole andavano a sud via acqua. Gli uccelli andavano a sud in volo. Ma così tanti! Mi tornò alla mente quanto avevo letto sull’America prima dell’arrivo della civilizzazione. Branchi di bisonti che coprivano la prateria. Stormi di uccelli che oscuravano il cielo a mezzogiorno.
Mi grattai la testa. Mi prudeva. Avevo bisogno di sapone e di una doccia.
Il giorno seguente era limpido e luminoso. Accesi di nuovo il falò di segnalazione. Questa volta prese. A mezzogiorno controllai la mia trappola. Le larve erano sparite. Qualche animale se le era mangiate e se ne era andato. Andai di nuovo in cerca di viveri lungo le sponde dell’isola. Trovai alcuni pesci morti. Lo erano da un po’ di tempo e non avevano un aspetto invitante. All’estremità meridionale dell’isola trovai un animale. Un bipede. Giaceva sulla spiaggia, per metà dentro nell’acqua. Morto, ma non da molto. Era lungo meno di un metro. Le sue penne erano verdeazzurre, lo stesso colore del cielo, e aveva una lunga cresta rossa. Le zampe anteriori finivano in fragili artigli. Le zampe posteriori erano fatte per correre. La bocca aperta era piena di denti. Un grazioso piccolo predatore. Di che cosa si cibava? Grossi insetti volanti? O forse piccole creature pelose.
Lo portai fino al mio fuoco e lo tagliai a pezzi. Ne seppellii la maggior parte e usai un paio di frammenti come esca per la mia trappola.
Dopo di che mi sedetti a osservare il fiume, cercando eventuali lucertole. Non ne vidi. Non dovevano esserci rischi ad attraversare a nuoto.
Verso sera scorsi una scia di fumo più a est di dove mi trovavo. Verso valle. Mi alzai e sorrisi a quella linea sottile, simile a un tratto di matita. Avevo compagnia. Avrei aspettato un altro giorno e tenuto il fuoco acceso. Se non fosse venuto nessuno da me, avrei disceso il fiume.
Mi chiesi brevemente chi avesse fatto quel fuoco. Uno dei miei compagni o qualcun altro? Un cacciatore solitario. Un gruppo di donne in viaggio. Mercanti del Popolo dell’Ambra.
Era inutile fare congetture. Non avevo nessuna reale informazione. Feci il mio yoga, poi meditai, fissando il fumo.
Per cena mangiai un frutto. Dormii male, afflitta dalla cattiva digestione.
L’indomani il cielo era nuvoloso. Sentivo la pioggia nell’aria. Maledizione! Guardai verso est. Non c’era alcun segno dell’altro fuoco. Forse l’avevano lasciato spegnere durante la notte. Forse il fumo era invisibile contro il basso cielo grigio.
Controllai la mia trappola. Era di nuovo vuota. Così dissotterrai il bipede e ne usai un altro pezzo come esca. Poi esaminai anche il mio pannolino. Nessuna traccia di sangue. Dovevo essere in grado di attraversare a nuoto il fiume. Tolsi il pannolino e lo seppellii, poi riaccesi il fuoco.
All’incirca a metà mattina incominciò a piovere. Una pioggia sottile e brumosa. Il mio falò continuava ad ardere, ma chi l’avrebbe visto? La sponda orientale del fiume era indistinta. Imprecai contro chiunque fosse responsabile del tempo. I quattro venti. Quegli uomini turbolenti! Pregai Guan Yin, anche se non ricordavo se avesse qualcosa a che fare con la meteorologia, e chiesi alla Madre delle Madri di mettere in riga i suoi nipoti.
— E fa’ qualcosa riguardo al Piccolo Spirito Insetto, se puoi.
Forse stavo diventando un po’ pazza. Di norma non parlavo con gli spiriti. Il mio stomaco brontolò. Conclusi che il problema era la frutta. Avevo bisogno di carne o di verdura. Bevvi un po’ d’acqua e controllai la mia trappola. L’esca era ancora lì.
A mezzogiorno comparve un’imbarcazione: una lancia con una cabina e un motore abbastanza grosso. Risaliva lentamente il fiume sotto la pioggia.
Indossai i miei jeans e raccolsi le mie cose: il coltello, l’accendino, il calzino mezzo disfatto. Avrei dovuto spegnere il fuoco, ma come? Era piuttosto grosso. Avrei lasciato che fossero altri a occuparsene. Scesi fino alla riva e gridai e agitai le braccia.
La persona a poppa fece un cenno in risposta. La barca virò nella mia direzione. Entrai con i piedi nell’acqua.
La persona era vestita di verde oliva. Un membro dell’equipaggio. In teoria non c’erano uniformi sulla nave, ma i membri dell’equipaggio tendevano a vestirsi nello stesso modo: pantaloni di denim verde oliva e pullover verde oliva, soffici berretti con l’ala, verde oliva o neri.
Mi spinsi più al largo, fino al bordo del dislivello. La barca si avvicinò, muovendosi sempre più lentamente. La Ivanova. Riconobbi il suo corpo largo e tozzo. A salvarmi era il primo pilota della nave interstellare Number One.
Dalla cabina uscì qualcun altro, più alto della Ivanova e più massiccio, con indosso un paio di jeans e una giacca di denim blu. La camicia era rossa, i capelli lunghi e neri, portati sciolti. Gli cadevano sulle spalle. Il dottor Edward Antoine Turbine di Vento.