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Il sole ormai era basso. La mia spiaggia era in ombra. Raccolsi della legna e accesi un fuoco. Spuntarono le stelle. Avvolsi un calamaro con delle foglie e l’arrostii nella brace. Sfrigolò ma non lanciò strida, cosa di cui fui grata. Ero disposta a uccidere animali e a mangiarli, accettavo quell’aggiunta al mio fardello karmico, ma non mi andava che le mie vittime fossero chiassose.

Tolsi dal fuoco l’involto di foglie e lo scartocciai. Il guscio era ancora grigio, i tentacoli avevano preso un bel color rosso ciliegia. Aprii il coltello ed estrassi l’animale dal guscio. Il corpo era a forma di cono e screziato di rosso e arancione. L’annusai. Non aveva alcun odore particolare. Lo aprii. Dentro non c’era niente di ripugnante. Non c’erano visceri pieni di sostanza nera, né alcuna sacca di inchiostro o veleno. Non c’erano lische né aculei.

— Avanti. — Lo mangiai. Era gommoso e aveva un gusto piccante. Mi piaceva.

Pensai di cuocere un altro animale, ma decisi di aspettare e vedere se il primo non mi avrebbe uccisa.

Una decisione difficile. Il mio stomaco brontolava. Potevo mangiare delle bacche. No. Un cibo alla volta. Se mi sentivo male, volevo poter stabilire quale evitare in futuro.

Gli insetti emersero dall’oscurità. Misi altra legna sul fuoco e cambiai posizione. Ora ero circondata dal fumo e gli insetti mi lasciarono in pace.

Dopo un’ora circa guardai i rimanenti animali. I loro tentacoli si muovevano debolmente. Stavano morendo. Se erano come i molluschi sulla Terra, sarebbero andati rapidamente a male. E io incominciavo ad avere davvero fame. Decisi di correre il rischio. Li avvolsi nelle foglie e li misi nella brace. Sfrigolarono.

Come potevo chiedere compassione al Bodhisattva quando io non provavo niente per quei piccoli esseri all’infuori di un inutile senso di colpa? E che cosa diavolo c’era che non andava in me? Stavo forse tornando indietro? Ero una persona moderna, una nativa delle Hawaii. Non sapevo niente delle credenze religiose degli antichi cinesi, a parte quello che avevo letto nei libri o sentito dire quando avevo fatto uno studio sulla comunità cinese di Melbourne. Perché dunque pregavo il Bodhisattva? E perché mi preoccupavo di ciò che succedeva a quegli sventurati animaletti? Misi altra legna sul fuoco.

Mangiai i calamari rimasti, poi raccontai al registratore quello che avevo fatto e mi misi a dormire. Mi svegliai la mattina dopo, sentendomi perfettamente bene.

Un’altra giornata radiosa. Feci visita a un tronco nella foresta e intanto pensai bramosamente ai bagni della nave. Mi lavai sulla riva del fiume, mangiai delle bacche, mi procurai della corteccia e mi feci un nuovo pannolino, mi misi quella dannata cosa e seppellii quella precedente. Infine entrai nell’acqua e andai a controllare la mia trappola per i pesci. La tirai su.

Avevo preso qualcosa, ma non era un pesce.

Se ne stava rannicchiato al centro della trappola, le zampe ripiegate. Contai dieci zampe. Ciascuna era lunga e sottile, piegata tre volte. Il corpo era rotondo e duro, con strisce e macchie marrone scuro e chiaro. A un’estremità c’era una testa, che consisteva in mandibole e occhi. Le mandibole scattarono. Gli occhi mi guardarono con astio. Li contai. L’animale aveva sei occhi, quattro grandi e due piccoli. Erano tutti sfaccettati. Avevo catturato un grosso ragno in un guscio duro. Un ragno con troppe zampe.

Clic. Clic.

Avevo desiderato un piccolo pesce gustoso.

— Okay — dissi. — Sei commestibile? Come ti cucino?

Clic.

Forse era delizioso, almeno quanto il calamaro. Le zampe ripiegate si mossero leggermente. Gli occhi mi guardavano furiosi. Naturalmente ero io a leggere un’espressione negli occhi, che apparivano come perline nere e, in realtà, non esprimevano nulla. Le mandibole scattarono. Aprii la trappola e la scossi.

L’animale cadde nell’acqua e sparì. Riportai a riva la trappola e la misi giù. Poi tornai verso l’insenatura. Sguazzai qua e là nell’acqua, cercando tracce nella sabbia, e trovai tre calamari. Furono la mia colazione.

Quando ebbi finito, andai nuovamente a esplorare la foresta. Trovai altre larve e una pianta che aveva un aspetto familiare. Aveva foglie azzurre arricciate e una radice grassa. Ero quasi certa che Nia avesse raccolto piante come quella. Ricordavo che aveva arrostito la radice. Era amidacea e insipida, ma saziava. Ne cavai nove o dieci.

Gli animali arboricoli facevano rumori sopra di me. Mi lanciarono altri ramoscelli. Aspettai, sperando in un altro frutto, ma non fui più così fortunata. Alla fine rinunciai e tornai sulla riva, misi altre esche nella trappola e raccolsi legna. Incominciavo a provare una certa noia. Sarei rimasta bloccata su quell’isola per altri tre o quattro giorni. Non sarei morta di fame e non avevo bisogno di un rifugio. Che cosa avrei fatto?

Mi grattai distrattamente. Potevo cercare un insettifugo naturale. Potevo esercitare la mia calligrafia nella sabbia. Potevo dormire quanto volevo o trattare con gli spiriti: Guan Yin e la Madre delle Madri o il curioso spiritello che mi era apparso in sogno.

Per domandare loro che cosa? Di salvare me e i miei amici.

Potevo pensare a quello che avrei fatto dopo aver attraversato il fiume. Laggiù c’era la foresta. Tanajin aveva accennato a un animale chiamato assassino-delle-foreste. Non sembrava affatto qualcosa che avrei voluto incontrare. E le lucertole? Erano animali migratori. Non amavano l’acqua veloce. Forse viaggiavano via terra quando arrivavano alle rapide. Le immaginai, enormi, scure e pericolose, che si aggiravano fra le ombre della foresta.

Quanto erano veloci sulla terra? Ero in grado di correre più veloce di loro?

Potevo accendere un falò di segnalazione. Se i miei amici erano vivi, l’avrebbero visto.

Decisi di accendere il falò. Non oggi. Il sole era già a occidente. Quando avessi raccolto legna a sufficienza sarebbe stata ormai notte. Quello doveva essere il programma per l’indomani.

Controllai di nuovo la trappola. Era vuota. Cercai altri calamari, ma non ne trovai nessuno. Per cena mi restavano le radici. Le lavai nel fiume e le arrostii sul fuoco.

Il sole tramontò. Mangiai le radici. Non sapevano di niente in particolare. Descrissi al mio registratore le radici e la creatura che avevo trovato nella trappola. Poi mi misi a dormire.

Mi svegliai con un attacco di indigestione. Il fuoco non era che un mucchio di braci. Il cielo era pieno di stelle. E io soffrivo di un terribile caso di gas intestinale.

Quelle maledette radici! Dovevo essermi sbagliata. Non erano della specie che aveva trovato Nia. Riaccesi il fuoco e mi sedetti lì accanto, aspettando che il dolore passasse o peggiorasse.

Se ne fossi uscita viva, avrei dato un nome a quel luogo. Se necessario, avrei controllato i membri del team cartografico mentre inserivano l’informazione. Con ogni probabilità l’avrei chiamato Isola del Piccolo Insetto, benché mi piacesse anche Isola delle Piccole Seccature. Suonava bene. Immaginai le persone del futuro che leggevano il nome e dicevano: "Qui dev’esserci una storia. Quali erano le seccature? E chi era la persona seccata?".

Finalmente il dolore cessò. Tornai a dormire.

La mattina seguente era soleggiata con una leggera foschia, fresca per il momento. Andai a vedere la mia trappola.

Ah! C’era un pesce. Era grosso e arancione con una pinna dorsale blu scuro. Attorno alla bocca aveva lunghi filamenti sottili color azzurro chiaro. Si muovevano lentamente, tastando l’aria o forse assaporandola.

— Come sei brutto — dissi.

Il pesce aprì la bocca e gracidò.

— Lo stesso vale per me, eh?

Il pesce gracidò di nuovo.

Non avevo particolarmente fame, non dopo una notte di indigestione. Il pesce si sarebbe conservato. Rimisi nell’acqua la trappola e tornai a riva.

Trascorsi la mattinata raccogliendo legna. Entro mezzogiorno ero in un bagno di sudore e provavo un po’ di nausa a causa della calura. Il cielo era pieno di nuvole alte, appena visibili attraverso la foschia. Gli alberi lungo la mia spiaggia erano immobili. Ci sarebbe stato un temporale, ma non subito. Accesi il falò di segnalazione.

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