— Io non sono di grande utilità a una fucina — aggiunse l’oracolo. — Ma conosco storie, e i miei sogni sono utili.
Reciprocità. Un dono dev’essere sempre ricambiato. Che cosa avremmo potuto dare a Nia e all’oracolo in cambio del loro aiuto?
Tanajin uscì dalla tenda, portando una sacca di cuoio e una grossa anfora di metallo. — Cibo — disse.
L’uomo la seguiva. Non era alto, ma aveva il corpo ampio e pesante. La sua pelliccia era lunga e ispida e lo faceva sembrare ancora più grosso di quanto fosse in realtà. Zoppicava in modo evidente. Aveva una chiazza di pelame bianco su una gamba. Era forse segno di tessuto cicatrizzato? L’uomo volse il capo e ci osservò con attenzione. Sul lato della faccia c’erano due linee verticali di pelo bianco. La linea interna arrivava all’angolo della bocca e il labbro era girato all’infuori. Riuscivo a vedere la rossa membrana mucosa.
Gli occhi erano rossi, le pupille contratte e così strette che non riuscivo a vederle. Lo sguardo era assente. Strano!
— Non c’è dubbio che siate diversi — disse. La sua voce era profonda e aspra. — Tanajin dice che non siete stati ammalati.
Derek fece il gesto dell’affermazione.
— Io sono Ulzai.
Portava un gonnellino di tessuto marrone. La cintura era di cuoio con una fibbia di metallo giallo. Ottone, con ogni probabilità. Appeso a un fianco portava un coltello in un fodero di cuoio e ottone o bronzo. L’impugnatura era d’argento annerito. Era a piedi nudi e non portava nessun gioiello. Era l’uomo dall’aspetto più trasandato che avessi visto su questo pianeta. Trasandato e brutto.
— Mettete tutto quel che avete nella canoa. Qualcuno di voi è capace di pagaiare?
— Io — risposi.
— Io starò a poppa. Tu siederai a prua. Gli altri staranno nel mezzo. — Fissò Derek, Nia e l’oracolo. — L’imbarcazione avrà un carico pesante. Forse sono uno sciocco a trasportare tanta gente. Ma so quello che faccio sull’acqua e lì sono sempre stato fortunato. Ascoltatemi! Restate tranquilli! Se vi muovete, la barca potrebbe capovolgersi.
— Okay — disse Derek.
— Che cosa? — chiese Ulzai.
— Quella parola significa "sì" — spiegò l’oracolo.
Caricammo la canoa e la spingemmo nell’acqua. Nia e l’oracolo salirono in modo goffo.
— Fate attenzione! — disse Ulzai.
Derek se la cavò un po’ meglio.
Ulzai e io girammo l’imbarcazione, poi vi salimmo. — Tu, almeno, sai salire su una canoa — osservò l’uomo peloso. — Dimmi il tuo nome.
— Lixia.
— Li-zha — ripeté lui.
Tanajin disse: — Addio.
Trovai la mia pagaia. Era quasi uguale alle pagaie che avevo usato nel Minnesota settentrionale.
— Al lavoro — disse Ulzai.
Tuffai la pagaia nell’acqua. La mia prima vogata fu troppo superficiale.
— È questo il meglio che riesci a fare?
— Dammi tempo — ribattei. — Non lo faccio da parecchi anni e non mi ricorderò come fare se mi farai agitare.
Lui emise un suono iroso. — D’accordo.
La canoa si allontanò verso il centro del fiume. Mi voltai una volta a guardare indietro e vidi Tanajin ritta sulla riva: una figura scura, immobile. Dietro di lei c’era la tenda e dal suo fuoco saliva il fumo. Era ancora denso e scuro.
— Non guardare indietro — disse Ulzai.
Volsi il capo e mi concentrai sul lavoro di pagaiare.
Ulzai
Dopo un po’ di tempo Ulzai disse: — Incominci a vacillare. Da’ la pagaia all’uomo senza pelo. Lo sorveglierò e gli dirò dove sbaglia. Tu tieni d’occhio il fiume in cerca di tronchi galleggianti.
Derek prese la pagaia. Mi massaggiai la spalla ferita e mi guardai attorno.
Eravamo nel letto principale del fiume: una vasta distesa d’acqua, sgombra a eccezione di qualche sporadico detrito galleggiante: un ramo, una foglia, un groviglio di vegetazione, un albero.
Sulla mia sinistra c’era la riva orientale, ricoperta dalla foresta. La parete della valle s’innalzava in lontananza. Non era mutata: una fila di scogliere alte e ripide, fatte di una roccia tenera e profondamente erosa, di un giallo chiaro alla luce del sole.
Alla mia destra c’erano isolotti, banchi di sabbia e acquitrini. Le isole erano per lo più coperte di alberi. Non riuscivo a scorgere la costa. Non c’era una linea netta fra il terreno solido e l’acqua, né c’era modo di distinguere una grossa isola dalla riva del fiume.
Oltre gli acquitrini e la foresta s’innalzava un’altra fila di scogliere che segnavano l’estremità occidentale della valle. In un qualche periodo del passato doveva essere scorsa parecchia acqua lungo quella valle. Era forse un segno di glaciazione? Un interrogativo per i planetologi. Mi chiesi se sarebbero mai scesi quaggiù, se sarebbero mai arrivati a vedere questa valle.
All’incirca a metà pomeriggio, Nia aprì la sacca del cibo e distribuì pezzi di pane. Bevemmo la birra asprigna.
— Ecco laggiù il nostro temporale — disse Derek.
Guardai verso ovest. Le nuvole si gonfiavano sopra le scogliere: cumulonembi, alti e di un bianco grigiastro. Altre nuvole, alte e sottili, si estendevano verso la metà del cielo, velando il sole che risplendeva di un fulgore appena attenuato.
Ulzai disse: — Riprendi tu la pagaia, o donna senzapelo. Avremo bisogno di tutta la tua abilità.
Ubbidii ai suoi ordini. Incominciò a soffiare il vento e l’acqua del fiume s’increspò. — Gira in dentro — mi ordinò Ulzai.
— Dove? — chiesi.
— L’isola di fronte. Quella grande.
Vogammo in quella direzione. Sul lato verso monte era ammucchiata legna galleggiante: radici e rami grigi, tronchi levigati dall’acqua. La rasentammo e approdammo su una piccola spiaggia sabbiosa. Saltai giù dalla canoa. Si udì il cupo brontolio del tuono a occidente.
— Tirate a terra l’imbarcazione — ordinò Ulzai.
Scaricammo la canoa e la tirammo fuori dall’acqua, poi la trasportammo fino al limitare della foresta.
Ormai il cielo si era oscurato. Ulzai fece il gesto che significava "muoviamoci". Raccogliemmo le nostre provviste e lo seguimmo nella foresta. Un sentiero serpeggiava fra gli alberi. Sopra di noi le foglie stormivano al vento. L’aria aveva l’odore della terra umida e della pioggia in arrivo.
Arrivammo a una radura. Al centro c’era uno stagno, largo un tre metri, limpido e poco profondo. Riuscivo a vedere delle foglie sul fondo. Dell’anno precedente, forse. Erano grigie e di un giallo spento. Sui bordi dello stagno cresceva una pianta simile a muschio di un azzurro scuro, e insetti color arancione svolazzavano sulla superficie.
Ai margini della pianura c’era una tenda, grande e fatta di cuoio, tesa fra due alberi. Il suolo sottostante era stato ripulito di tutto il sottobosco e i detriti della foresta. Al centro del terreno nudo c’era una catasta di legna.
— Questa è la mia casa — ci disse Ulzai.
— Spartana — fece Derek in inglese.
Ci fu uno scoppio di tuono. Sobbalzai. Attraverso la volta della foresta incominciarono a schizzare gocce di pioggia.
Ulzai fece un gesto.
Ci ammassammo sotto la tenda e la pioggia prese a scrosciare. Tamburellava sulla tenda, grondava dal cuoio e cadeva nella radura come… che cosa? Una cortina grigia. Un torrente di montagna. Mi raggomitolai con le braccia attorno alle gambe. Il vento mi soffiava addosso l’acqua. Un lampo guizzò. Ci furono altri tuoni.
— Non durerà — disse Derek.
— Spero di no — ribattei.
Ancora lampi. Ancora tuoni. Non c’erano pause. Il lampo era vicino. Rabbrividii, non per la paura. L’aria era fredda e mi stavo bagnando. Nia era più vicina al bordo della tenda di me. La tunica le si appiccicava già al corpo. La sua pelliccia era schiacciata. Aveva un’espressione di cupa sopportazione.
— C’è stata parecchia pioggia quest’estate — osservò l’oracolo. — Mi chiedo chi ne sia responsabile.
Ulzai disse: — Una cosa ho imparato da quando ho risalito il fiume. Il tempo da queste parti non è mai affidabile. A me sembra che ci siano un sacco di spiriti diversi che mettono le mani nel fare il tempo. Non vanno d’accordo fra di loro. Rifiutano di lavorare insieme e questo spiega perché ci sono tante specie di tempo da queste parti e perché il tempo cambia continuamente.