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Spostai la pagaia e spinsi in acqua la pala, cercando di far girare la barca. Quello di cui avevo bisogno, davvero bisogno, era il genere di imbarcazione che avevo usato sulla Terra. Oh, cos’avrei dato per l’alluminio!

La canoa incominciò a girare. Provai un senso di sollievo.

Ulzai espirò. Guardai in su. Teneva lo sguardo fisso oltre la mia testa. Mi voltai a dare un’occhiata. C’era qualcosa nell’acqua. Una testa scura. Enorme. Doveva essere grande il doppio dell’animale che avevo visto nella laguna.

— Umazi - disse l’oracolo.

— Non guardare indietro — ordinò Ulzai. — Continua a vogare. E sta’ all’erta qualora ci fossero problemi davanti a noi. Mi occuperò io di questo.

Pagaiai. Dopo un po’ lui disse: — Non è un umazi. La forma della testa è diversa. E non è abbastanza grande.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

La corrente era più turbolenta. C’era schiuma sull’acqua davanti a noi. A una certa distanza verso ovest una sagoma scura si profilava nella nebbia. Una roccia, non un’isola. Eravamo arrivati alle rapide e ci trovavamo ancora troppo al largo.

— Ora la lucertola si fermerà — disse Ulzai. — Odiano l’acqua rapida.

Anch’io, il che mi dava qualcosa in comune con la lucertola. Non sufficiente, però, a costituire la base di un’amicizia.

Ulzai disse: — Deve essere affamata. O pazza. Si sarebbe dovuta fermare.

— Non l’ha fatto? — chiesi.

— Si sta avvicinando.

— Merda! — esclamai in inglese.

Ulzai scagliò la lancia.

Ci fu un urlo e mi guardai attorno. L’animale era dietro di noi. Mio Dio, quasi dentro la barca! Il corpo enorme si contorse. Vidi un ventre chiaro e una schiena scura e coperta di aculei. La lancia di Ulzai sporgeva dalla schiena come un altro aculeo, lungo e sottile. L’animale aprì la bocca. Denti e ancora denti. Lanciò un altro urlo.

Dovevo aver smesso di vogare, sebbene non me ne fossi resa conto. La barca ondeggiò, poi si girò, presa in un vortice, e proseguì di traverso nella corrente.

— Stupida! — sbraitò Ulzai. — Ti avevo detto…

La barca si capovolse. Caddi nell’acqua fredda e impetuosa. Un istante dopo il fiume precipitò oltre un dislivello.

Caddi a testa in giù. La bocca mi si riempì d’acqua mentre il fiume mi risucchiava giù. Non lottai. Questo mi avrebbe uccisa. La regola era farsi portare dalla risacca. Alla fine si risaliva in superficie. Ma la regola valeva per il nuoto nell’oceano.

Cielo, se era difficile non dimenarsi! Mi facevano male i polmoni e stava accadendo qualcosa al mio cervello. Un senso di pressione. Un offuscamento.

Il fiume superò un altro dislivello. Continuavo a girare su me stessa. Aiya! Maledizione!

La corrente rallentò. Ora riuscivo a nuotare. Su. Su. Emersi in superficie, sputai fuori acqua e inspirai.

Ah!

Galleggiai, lasciando che il fiume mi portasse. Inspiravo ed espiravo. Mi dolevano le braccia, la spalla e i polmoni.

Ma ero viva. Sollevai la testa e vidi la nebbia. L’acqua attorno a me era grigia e leggermente increspata. Di fronte a me si profilavano degli alberi: ombre, appena visibili. Un’isola. Ero troppo sfinita per nuotare ancora. Lasciai che la corrente mi portasse verso gli alberi.

C’era della legna galleggiante sulla riva a monte. Un enorme groviglio. Rami e radici si protendevano nell’acqua. Stavo per passarvi accanto. Feci qualche bracciata, quattro o cinque, non sarei riuscita a farne di più, poi mi aggrappai a una radice e rimasi lì appesa. La corrente mi tirava. Respirai. Dentro. Fuori. So. Hum. Pian piano il mio cuore rallentò i suoi battiti. I polmoni non mi facevano più tanto male.

Ma il dolore al braccio stava peggiorando. Stavo per perdere la presa sulla radice. Chiusi gli occhi e pregai Guan Yin, la dea della misericordia, il Bodhisattva della compassione. Fammi uscire viva da qui.

Ritta sul suo fiore di loto, lei sorrise e fece un gesto rassicurante.

Mi tirai su, una mano sopra l’altra, fra il groviglio di legna e mi incuneai lì in mezzo. I rami mi tenevano per metà fuori dall’acqua. Aiya! Mi rilassai. Mi caddero le braccia e le mani entrarono nel fiume. Mi riposai così forse un’ora.

La nebbia si dissolse. Di fronte a me il fiume risplendeva bruno e verdeazzurro. Un grosso uccello sguazzava nell’acqua. Si tuffò e riemerse, poi si tuffò e riemerse di nuovo. Non riuscivo a vedere se aveva catturato qualcosa.

Infine mi tirai fuori completamente dall’acqua e incominciai a inerpicarmi fra l’intrico di rami e di radici, dirigendomi verso la sponda dell’isola.

Lixia

Quando raggiunsi la riva ero nuovamente stremata. Mi sedetti sulla spiaggia di sabbia di un grigio tenue. Di fronte a me c’era il legname galleggiante: una barriera bianca e grigia che nascondeva il fiume. Alle mie spalle… Mi guardai attorno: alberi e cespugli.

Dopo un po’ pensai agli altri. Che fine avevano fatto?

Avevo visto Derek fare vasche nella grande piscina della nave. Se la cavava bene in acqua, quasi quanto me, e io ero cresciuta presso l’oceano. Probabilmente ne sapeva meno di me sull’acqua burrascosa, ma era sopravvissuto a un sacco di situazioni veramente difficili.

Quanto ai nativi, non avevo la minima idea se sapessero nuotare. Forse il fiume li aveva uccisi. Un’idea spaventosa. Rabbrividii, a dispetto del sole infocato e dei vestiti ormai quasi asciutti.

Decisi di fare un inventario. Che cosa avevo? Una camicia di denim. Jeans. Biancheria. Avevo perso i miei stivali e mi restava un solo calzino. Mi frugai nelle tasche e trovai un accendino che non funzionava. Doveva esservi entrata l’acqua. L’avrei provato più tardi. Un coltello pieghevole. Una pietra rotonda e grigia con dentro un fossile. Della garza.

Era tutto qui, a parte il registratore audiovisivo sulla sua catena che avevo al collo. Lo toccai. Era caldo al tatto. Lì dentro c’era un trasmettitore, molto piccolo, che trasmetteva un segnale che consentiva di rintracciare chi lo portava. Non aveva una lunga portata, ma quelli sulla nave sapevano già approssimativamente dove mi trovavo. Se avessero deciso di cercarmi, mi avrebbero trovata. Tutto quello che dovevo fare era restare in vita e sperare che venissero a cercarmi.

Per trovarmi rapidamente, avrebbero dovuto usare delle macchine: motobarche o aeroplani. Provai a immaginare Eddie che dava il suo consenso a una ricerca del genere. Era poco probabile. Ma non c’era solo lui sulla nave.

Mi tolsi il calzino che mi restava, lo piegai e me lo ficcai in una tasca, poi mi alzai e mi tolsi la sabbia dai vestiti. Era ora di andare in esplorazione.

Girai attorno al perimetro dell’isola, tenendomi il più possibile vicina alla riva. Non trovai alcuna impronta: un buon segno. Significava che non c’erano grossi animali sull’isola. Significava anche che dovevo aprirmi un varco nella vegetazione. Scavalcai tronchi e passai sotto rami di alberi. Ovunque crescevano rampicanti, formando liane che erano quasi tropicali. Gli insetti mi ronzavano attorno, ma non mordevano.

Un paio di volte mi trovai di fronte del fogliame troppo fitto per addentrarvisi. Seguii quindi il fiume, sguazzando nell’acqua bassa. Minuscoli pesci guizzavano davanti a me.

Quando ebbi fatto un mezzo giro dell’isola, mi tagliai un piede. Non avrei saputo dire con certezza su che cosa: una pietra aguzza o la conchiglia di un animale di fiume. Il taglio non era profondo, ma sanguinava. Dopo di che mi tenni fuori dall’acqua.

Quando tornai al punto di partenza era ormai pomeriggio inoltrato. Le ombre si allungavano sulla spiaggia, raggiungendo il groviglio di legname galleggiante.

Mi sedetti. Che cosa avevo scoperto?

L’isola si trovava sotto le rapide. Le avevo intraviste mentre mi inerpicavo fra i cespugli all’estremità settentrionale.

A ovest c’erano altre isole. In quel punto l’acqua era tranquilla e la riva del fiume era lontana. Non ero neppure certa che fosse quella che vedevo. La linea indistinta poteva essere una palude o un’altra serie di isole con i contorni che si confondevano nella foschia della tarda estate.

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