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— Vieni, Cal! — gridò uno degli uomini. — Ce ne andiamo, noi!

Lentamente, la tribù si allontanò alla spicciolata dall’edificio di Lizzie. Diciassette, venti, venticinque. Indossavano tute lacere e portavano tele cerate e caraffe d’acqua. Niente coni a energia Y, nessun terminale. Quattro sudici bambini Cambiati, ma nessun neonato. Quando furono tutti fuori vista, Lizzie si avventurò oltre l’angolo dell’edificio.

La ragazza era morta. Il sangue colava a terra dalla gola tagliata. Aveva gli occhi sbarrati, il volto contorto in un’espressione terrorizzata e nello stesso tempo implorante. Sembrava della stessa età di Lizzie ma più minuta, coi capelli più chiari. Su un lobo portava un orecchino di latta a forma di cuore.

"Non posso seppellirla" pensò Lizzie. Il terreno era duro: non pioveva da una settimana. Lizzie non aveva alcun attrezzo con cui scavare, e se fosse rimasta ancora a lungo, avrebbe perduto per sempre il coraggio di attraversare il ponte. Oh, Dio, e se quelle persone avessero passato anche loro il ponte? Se l’avessero sorpresa lì?

No. Non avrebbe permesso che accadesse. Non era indifesa come quella povera ragazza. Inoltre, anche se Lizzie avesse potuto, non sarebbe stata comunque una buona idea seppellirla: la tribù della ragazza poteva venirla a cercare e sarebbe stato meglio se avesse saputo quello che le era successo invece di domandarsi in eterno se fosse ancora viva. Sarebbe stato intollerabile. Se fosse stato Dirk…

Allontanò da sé quel terribile pensiero, si inginocchiò sul terreno insanguinato e slegò le mani e i piedi della ragazza dai grezzi paletti in legno. Estrasse i paletti dal suolo; alla tribù della ragazza poteva almeno risparmiare quello. Felice perché lo scudo la proteggeva dal contatto col sangue della giovane che scorreva, Lizzie sollevò il corpo e barcollò fino all’ombra dell’edificio. Fece rotolare il cadavere contro la cupola a energia-Y e ne coprì il busto con una camicia presa dallo zaino, legandola attorno alla vita della ragazza per evitare che venisse portata via dal vento.

Si incamminò quindi verso il ponte, prima che fosse troppo buio e lei troppo spaventata.

Sapeva perfettamente dove si trovava. Anche se non osava attivare il terminale per aprire alcun tipo di collegamento rintracciabile, poteva utilizzarlo per accedere alle informazioni della biblioteca di cristallo, che conteneva atlanti dettagliati. Quella era la rimessa della Ferrovia a Gravità Senatore Thomas James Corbett, nel New Jersey. Ovviamente, la ferrovia a gravità aveva smesso di funzionare durante le Guerre del Cambiamento. Gli edifici protetti, tuttavia, erano ancora lì, probabilmente con i treni dentro, e non c’era nulla che potesse distruggere la linea a levitazione magnetica. Scintillanti binari gemelli di un materiale che Lizzie non era in grado di identificare arrivavano fino a lì dalla Contea di Willoughby e percorrevano il ponte che superava il fiume Hudson per giungere a Manhattan. Dovevano passare, secondo le cartine, a nord di Central Park per giungere diritta a una stazione di terra della Enclave di Manhattan Est.

E poi?

Come prima cosa, doveva arrivarci.

Lizzie fissò il ponte e quindi il cielo. Mancavano più o meno tre ore al tramonto: avrebbe potuto attraversare protetta dall’imbrunire e nascondersi dall’altra parte. Il ponte offriva scarsa copertura. Era stretto, non più di tre metri di larghezza, e non mostrava sporgenze o supporti visibili. Ma come stava in piedi? Probabilmente nello stesso modo in cui si era retta la ferrovia a gravità. La fisica e l’ingegneria non avevano mai interessato troppo Lizzie. Però avrebbe potuto raccogliere tutte le informazioni possibili prima di attraversare.

L’Hudson scintillava brillante nella luce del sole. Presso il fiume, mezzo nascosto da un’alzaia, Lizzie trovò una chiazza di terreno erboso. Bevve dall’Hudson, disattivò lo scudo e si spogliò. Mentre giaceva a terra per alimentarsi, sollevava la testa ogni pochi secondi per essere sicura che non si avvicinasse nessuno. Il sole dava una gradevole sensazione sulla pelle nuda, ma lei non riuscì a goderne. Non appena la sua chimica Cambiata le segnalò sazietà, balzò in piedi, si vestì e riattivò lo scudo personale. Quindi si mise al lavoro col computer. Al tramonto sapeva tutto quanto c’era nella biblioteca di cristallo sul Ponte a Traliccio della Ferrovia a Gravità Governatore Samantha Deborah Velez.

All’estremità orientale del ponte, nascosta nella profonda ombra di un edificio, Lizzie rimase ad ascoltare con estrema attenzione. Un’ora prima aveva sentito delle persone iniziare ad attraversare il ponte. In quel momento, tuttavia, non c’era nessuno in vista, e tutto quello che riusciva a sentire era il grido di gabbiani che turbinavano e il lambire del fiume contro le sponde. Si mise carponi e cominciò a strisciare sul ponte, presentando la sagoma più piccola possibile.

Il ponte era lungo 2,369 chilometri.

L’oscurità era calata prima di quanto Lizzie avesse previsto. Il buio rappresentava ovviamente una copertura, ma lei aveva paura di strisciare attraverso il ponte non illuminato. Non tanto di cadere, quanto… di cosa? Aveva soltanto paura e basta. Di tutto.

No, non ne aveva. Lei era Lizzie Francy, il miglior pirata informatico del paese, l’unica Viva ad avere osato riprendere parte del potere politico dai Muli. Non avrebbe avuto paura. Soltanto le persone come sua madre avevano paura di tutto, anche prima del neurofarmaco.

"Resta a casa, piccola, al tuo posto, tu." Di nuovo la voce di Annie. Dio, sarebbe stata felice quando fosse stata troppo vecchia per sentire nella testa la voce di sua madre. Quanti anni avrebbe dovuto avere? Forse addirittura trenta?

Poi udì qualcos’altro. Persone che attraversavano il ponte arrivando dalla parte di Manhattan.

Lizzie strisciò in avanti ancora più in fretta. Ormai riusciva a vedere la luce che portavano, una forte torcia a energia-Y che ballonzolava in lontananza. Quanto lontano? Il vento soffiava contro di lei: portava le loro risate. Risate maschili.

Doveva essere lì vicino, "vicino": era passato un po’ di tempo da quando aveva sentito l’ultimo…

Lo sentì al tatto nell’oscurità, il piccolo dosso scuro al margine del ponte, studiato per essere utilizzato durante le riparazioni. I tecnici vi agganciavano i fluttuanti, quindi attivavano lo scudo di energia che aumentava momentaneamente l’ampiezza del ponte per godere di maggiore possibilità di manovra. Gli scudi potevano sostenere parecchie tonnellate di equipaggiamento, se necessario. Potevano anche piegarsi a ogni angolazione desiderata. Lizzie ne aveva letto nella biblioteca di cristallo: ma non conosceva i codici di attivazione. Non aveva osato aprire un collegamento satellitare per cercare di carpire l’informazione dai data base dell’azienda della ferrovia a gravità.

Ormai non aveva alcuna possibilità di scelta.

— Attivare sistema — sussurrò. — Oh, Dio, "attivare sistema". Volume minimo.

— Terminale attivato — sussurrò il computer.

Lavorò in fretta, mormorò febbrilmente al terminale, controllò la luce della torcia più avanti. Sembrava essersi fermata. Voci occasionali di cui non distingueva le parole le soffiavano contro portate dal vento. Voci alterate, una discussione. Bene. Che litigassero pure, che si picchiassero, che si buttassero giù dal ponte. E se avessero buttato lei giù dal ponte? Non sapeva nuotare.

"Resta a casa, piccola, al tuo posto, tu."

— Traccia 74, codice J — tentò Lizzie. "Dai, dai." Doveva trattarsi di un codice semplice. Forse perfino di tipo industriale, standard, facile da ricordare per tutti i tecnici turnisti delle squadre. Non doveva presentare troppi fattori contingenti né cambiamenti automatici: sarebbero stati di intralcio in caso di un’emergenza. Doveva essere semplice, non troppo segreto…

Eccolo.

La torcia si muoveva nuovamente in avanti. Lizzie afferrò il terminale e lo zaino. Appoggiò una mano sul dosso scuro e pronunciò il codice. Senza produrre alcun rumore, grazie a Dio non lo faceva, il ponte si estese sopra l’acqua, una piattaforma trasparente di energia che scompariva nell’oscurità.

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