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Leisha sorrise, senza provare alcun divertimento. Povero Roger. Incolpato per tutto ciò che Alice non era, per tutto ciò che Leisha era e per tutto ciò che Leisha non era. In un certo senso era buffo. Solo però in quel modo privo di spirito in cui erano buffe tutte le cose, di quei tempi. Nel giro di altri ottant’anni, forse, l’avrebbe trovato ilare. Tutto quello che occorreva era un po’ di tempo, che si accumulava come polvere.

— Ceneri alle ceneri, polvere alla polvere…

Era stato Jordan a scegliere quelle belle, dolorose e sentimentali parole, Drew lo sapeva. Drew non aveva mai assistito a un servizio funebre fino ad allora e non era sicuro del significato di tutte quelle frasi arcaiche ma, guardando i volti raccolti attorno alla tomba di Alice Camden Watrous, fu certo che Jordan aveva scelto le parole, che a Leisha non piacevano, che Stella non le sopportava. E Alice? Ad Alice sarebbero piaciute, sapeva Drew, perché le aveva scelte suo figlio. Sarebbe stato sufficiente per Alice. E quindi lo era anche per Drew.

Le forme scivolavano silenziosamente, dentro e fuori la sua mente conscia.

Poiché egli conosce il nostro corpo: egli ricorda che siamo polvere. In quanto all’uomo, i suoi giorni son come erba: come fiore di campo egli fiorisce. Il vento vi passa sopra ed esso si dissolve: quel luogo più non lo conoscerà.

Era Eric che leggeva le parole, il nipote di Alice, il vecchio nemico di Drew. Drew guardò l’uomo solenne e bello che era divenuto Eric e le forme nella sua mente si fecero più profonde, presero a sdrucciolare più velocemente. No, non forme, quella volta voleva la parola. Era determinato a trovare la parola per Eric che poteva anche essere polvere ma, in quel caso, solo una polvere di vera pelle di alta qualità, una polvere solida come il platino su cui non si poteva passare sopra senza riconoscerla, perché Eric era Insonne, nato per essere abile e potente, indipendentemente dalla ribellione giovanile che aveva manifestato un tempo. Drew voleva la parola per Richard, con gli occhi abbassati accanto a sua moglie e al suo bambino Dormienti, fingendo di essere come loro. La parola per Jordan, il figlio di Alice, lacerato in due per tutta la vita fra la madre Dormiente e la brillante zia Insonne, difeso solamente dalla propria onestà. La parola per Leisha, che aveva amato i Dormienti, se era vero ciò che gli aveva raccontato Kevin Baker, ben più di quanto non avesse mai amato alcuno del proprio genere. Suo padre. Alice. Lo stesso Drew.

Non riusciva a trovare la parola giusta. In quel momento stava leggendo Jordan, da un differente libro antico. Conoscevano tutti così tanti libri antichi: — Sonno dopo fatica, porto dopo mari tempestosi, serenità dopo guerra, morte dopo vita…

Leisha sollevò lo sguardo dalla bara. Aveva un volto inflessibile, fisso. La luce del cielo del deserto si riversava sulle sue guance, sulle pallide labbra serrate. Non guardò Drew. Lanciò un’occhiata alle lapidi levigate dal vento su entrambi i lati del piccolo pezzo di terra destinato ad Alice, BECKER EDWARD WATROUS e SUSAN CATHERINE MELLING, quindi diritto davanti a sé, al nulla. All’aria. Anche se non incrociarono lo sguardo, Drew seppe improvvisamente, dalle forme fluide all’interno della propria mente e dalla rigida forma esteriore di Leisha, che non ci sarebbe mai andato a letto insieme. Lei non lo avrebbe mai amato in altro modo se non come un figlio, perché come figlio lo aveva visto per la prima volta e lei non mutava le sue forme principali. Non poteva farlo. Era quello che era. Quel principio valeva per la maggior parte delle persone, ma per Leisha era particolarmente vero. Lei non si piegava, non si fletteva. C’era qualcosa in lei, qualcosa derivato dall’insonnia: no, era qualcosa non in lei. Qualcosa che il fatto stesso dell’insonnia lasciava fuori. Drew non riusciva a definire cosa fosse. Gli Insonni l’avevano tutti: quell’inflessibilità, l’incapacità di cambiare categorie e, per quel motivo, Leisha non l’avrebbe mai amato nel modo in cui lui amava lei. Mai.

Lo ghermì un tale dolore che per qualche istante non fu in grado di vedere la bara di Alice sotto di lui, nel terreno, Alice, il cui amore aveva permesso a Drew di crescere in un modo in cui quello di Leisha non avrebbe mai potuto. Gli si schiarì la vista e lasciò che il dolore scorresse liberamente, finché non divenne un’altra forma nella sua mente, frastagliata e lacerata ma più di se stessa, più di lui stesso. E, quindi, sopportabile.

Non avrebbe mai potuto avere Leisha.

Tutto quello che gli rimaneva, quindi, era il Rifugio.

Drew guardò ancora una volta attorno al cerchio di persone. Stella teneva il volto nascosto contro la spalla del marito. La loro figlia, Alicia, posava entrambe le mani sulle spalle delle sue bambine. Richard non aveva sollevato la testa: Drew non riusciva a vederne gli occhi. Leisha stava in piedi sola, e la chiara luce del deserto metteva in evidenza la sua pelle giovane, i suoi occhi privi di rughe, le labbra rigidamente serrate.

A Drew venne in mente la parola, la parola che lo aveva ossessionato, la parola che si adeguava a tutti loro, Insonni, che piangevano colei che avevano più amato, che non era stata una di loro e che proprio per questo motivo era quella che amavano di più.

La parola era: "pietà".

Miri si chinò infuriata sul proprio terminale. Sia il monitor sia le informazioni in uscita dicevano la stessa cosa. Quel modello sintetico neurochimico forniva prestazioni anche peggiori del precedente. O degli ultimi due. O degli ultimi dieci. Le sue cavie, con i cervelli confusi da quella che sarebbe dovuta essere la risposta all’esperimento di Miri, rimanevano incerte nelle cabine per l’analisi cerebrale. La più piccola delle tre cedette: si sdraiò e si addormentò.

— M-m-magnifico — bofonchiò Miri. Ma che cosa le aveva mai fatto pensare di essere una ricercatrice biochimica? "Super"… già. Certo. Superincompetente.

Stringhe riguardanti codice genetico, fenotipi, enzimi, siti ricettori si formavano e riformavano nella sua testa. Nessuna di quelle serviva a qualcosa. Sprecato, tutto sprecato. Lanciò uno strumento di calibrazione dall’altra parte del laboratorio, garantendo così che dovesse venire ricalibrato.

— Miri!

Joan Lucas si trovava sull’arco della porta con il grazioso viso contorto come una corda. Lei e Miri non si parlavano da anni. — Miri…

— C-c-cosa c’è J-j-joan?

— Tony. Vieni immediatamente, Lui… — Il suo volto si contrasse ancora di più. Miri sentì il sangue gelarsi nelle vene.

— C-c-c-cosa?

— È caduto. Dal campo giochi. Oh, Miri, vieni.

Dal campo giochi, Dall’asse della stazione orbitale. No, non era possibile, il campo giochi era sigillato e dopo una caduta da quell’altezza non sarebbe rimasto nulla.

— Dall’ascensore, intendo dire. Fuori. Sai che i ragazzini si sfidano sempre a salire dalla parte esterna dell’ascensore, sui montanti di sostegno, e poi a tuffarsi nel portello per le riparazioni.

Miri non lo sapeva. Tony non glielo aveva detto. Non riusciva a muoversi, non riusciva a pensare. Era solo capace di fissare Joan che stava piangendo. Alle spalle di Miri, una delle cavie modificate geneticamente emise un debole squittio.

— Vieni! — gridò Joan. — È ancora vivo!

A mala pena. Lo staff medico lo aveva già raggiunto. Lavorarono con espressione cupa sulle gambe schiacciate e sulla spalla rotta prima di trasferirlo in ospedale. Tony aveva gli occhi chiusi: un lato del cranio era ricoperto di sangue.

Miri percorse nella navetta d’emergenza il breve tratto fino all’ospedale. I dottori trascinarono via velocemente Tony. Miri restò seduta, immobile, accecata, sollevando lo sguardo soltanto all’arrivo di sua madre.

— Dov’è! — gridò Hermione, e una piccola, crudele parte della mente di Miri si chiese se Hermione avrebbe finalmente guardato direttamente il figlio maschio più grande, ora che tutto ciò che valeva la pena guardare era sparito. Il sorriso di Tony. L’espressione dei suoi occhi. La sua voce che balbettava le sue parole. Le parole di Tony.

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