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Da dove erano venuti? Era possibile che lui fosse rimasto in quella bolla di oscurità più a lungo di quanto aveva creduto? Forse Penkawr aveva esplorato la Tomba di Rhiannon, e aveva scoperto altre cripte segrete… e in quelle cripte, i misteriosi oggetti luccicanti che ora Carse vedeva, e che il ladro marziano aveva allineato nella camera, in attesa del prossimo viaggio che egli avrebbe fatto per rifornirsi di bottino da vendere per un prezzo favoloso.

Lo stupore di Carse aumentò, mano a mano che egli esaminava gli oggetti che ora parevano torreggiare tra le armature e le altre reliquie che già egli aveva visto intorno.

Quegli oggetti non avevano l’aspetto di semplici reliquie di un’arte antica… parevano piuttosto dei complicati strumenti, creati per chissà quale scopo misterioso; erano di fattura elaborata, e c’era qualcosa, in essi… un’aria di efficienza, di funzionalità, e nello stesso tempo di perfezione… che faceva pensare a uno scopo ben preciso, anche se ora Carse non riusciva certo a immaginarlo.

Il più grande di questi oggetti era una ruota di cristallo, grande come un tavolino, montata orizzontalmente in cima a una sfera di metallo opaco. Il bordo della ruota era tutto uno sfolgorio di preziose gemme tagliate a poliedri, con incomparabile precisione. E c’erano degli altri piccoli congegni formati da raggruppamenti di prismi di cristallo, tubi, e oggetti composti da anelli metallici concentrici, e altri tubi piatti, stranamente contorti, fatti di metallo massiccio.

Era possibile che quegli oggetti scintillanti fossero gli incomprensibili strumenti di una oscura scienza aliena, sepolta nel più remoto passato di Marte? Ma quella supposizione pareva incredibile… era quasi una bestemmia, per la mente di un archeologo. Tutti gli studiosi sapevano che Marte, nel suo lontanissimo passato, era stato un mondo nel quale era esistita una scienza molto rudimentale, un mondo di guerrieri e marinari, le cui galere e i cui regni si erano combattuti sulle acque e sulle coste di oceani prosciugati da centinaia di migliaia d’anni, un mondo barbarico, nel quale si era combattuto all’arma bianca. Un mondo di ricordi e di superstizioni e di leggende, privo di una tecnologia e di una scienza degne di questo nome.

Eppure, forse, in un passato ancor più lontano su Marte era esistita una scienza, della quale perfino il più pallido ricordo era scomparso, le cui tecniche erano ignote e indecifrabili; una scienza più antica ancora del nebuloso, indistinto periodo delle leggende che erano sopravvissute per un milione di anni; una scienza che, forse, era all’origine dei miti e dei personaggi eroici e divini che li popolavano?

Ma dove avrebbe potuto trovare quei misteriosi strumenti, Penkawr, se prima né lui né il terrestre li avevano visti? E sopratutto, per quale motivo si era limitato a esporli là, nella camera, senza portarne neppure uno con sé?

Il ricordo di Penkawr gli riportò alla mente la situazione… e il fatto che il piccolo ladro marziano si stava allontanando dalla Tomba di Rhiannon, ogni minuto di più. Stringendo la spada, e cupo in volto, Carse voltò le spalle a quelle misteriose reliquie di un passato immemorabile, e si affrettò a percorrere il quadrato corridoio di pietra, per ritornare nel mondo esterno.

Mentre camminava a grandi passi, Carse riuscì finalmente a isolare la discrepanza che i suoi sensi avevano notato già da tempo, e che gli aveva prodotto una confusa sensazione d’inquietudine, mano a mano che egli percorreva il corridoio. C’era qualcosa di insolito. L’aria, nella tomba, si era fatta stranamente umida. Guardandosi intorno, vide che gocce d’acqua scintillavano sulle pareti, chiazze d’umidità sulle quali si rifletteva l’alone rossastro della lampada. Entrando nella Tomba di/Rhiannon, non aveva notato quel fenomeno… così inconsueto su Marte, un mondo arido perfino nel suo cuore più riposto. Il terrestre ne fu singolarmente colpito.

«Probabilmente, l’acqua filtra da qualche sorgente sotterranea, simile a quelle che alimentano i canali,» mormorò tra sé, cercando una spiegazione razionale. «Non è impossibile. Però sono sicuro di non avere notato il fenomeno, prima. Questa umidità non c’era.»

In quel momento, abbassò lo sguardo, e vide il pavimento del corridoio. La polvere formava uno strato spesso, uguale a quello che aveva visto prima, quando era entrato.

Ma ora sul tappeto di polvere non c’erano orme, non c’era nessuna impronta, a eccezione di quelle che egli stava producendo in quel momento.

Carse si sentì stringere, sommergere, da un orribile dubbio, da una sensazione d’irrealtà. L’incubo era ritornato. Quell’umidità così insolita, su Marte; la scomparsa delle impronte… che cosa era accaduto alla Tomba, a tutto ciò che lo aveva circondato, nel momento in cui era stato all’interno di quella spaventevole bolla di oscurità?

Arrivò al termine del quadrato corridoio di pietra. E vide che il corridoio era chiuso. Era bloccato da un enorme monolito di pietra, a forma di lastra.

Carse si fermò, fissando quel lastrone di pietra. Cercò di combattere contro il senso di spettrale irrealtà che andava ingigantendo, dentro di lui, cercò di dare un senso a quanto stava accadendo in un mondo nel quale nulla pareva avere più senso; la sua mente tentò di trovare una spiegazione logica, naturale, per scacciare le tenebre dell’ignoto che sentiva stringersi intorno a lui.

«Certo, deve essere semplice. Probabilmente, il corridoio era chiuso da una porta di pietra. Io non l’ho vista… e Penkawr, andandosene, l’ha chiusa per impedirmi di uscire, se fossi riuscito a liberarmi dalla bolla.»

Cercò di muovere il lastrone. Ma la pietra non si spostò di un millimetro. Carse guardò intorno, passò le mani, speranzoso, sulla sua superficie. Non c’era alcun segno che indicasse l’esistenza di una chiave, di una maniglia, di un cardine o di una guida segreta.

Alla fine, indietreggiò di qualche passo, e puntò la sua pistola protonica contro il massiccio ostacolo. Il getto sibilante di fiamma atomica scaturì dell’arma, colpì il lastrone di pietra, crepitando, scheggiando quell’ostacolo imprevisto, cominciando a formare una cavità nera, in esso.

Il lastrone era massiccio. Carse dovette premere il pulsante della pistola protonica per diversi minuti, senza mai interrompere il getto di fiamma. E poi, con un rumore cupo, tremendo, che si ripercosse vibrante sulle pareti umide e, in fondo al corridoio, nella grande camera interna, i frammenti incandescenti che erano rimasti a ostruire il passaggio caddero sul pavimento del corridoio, davanti al terrestre.

Ma oltre il lastrone di pietra, invece dello stretto pertugio e dell’aria aperta della notte, c’era una massa solida di terra rossa.

«Tutta la Tomba di Rhiannon… è nuovamente sepolta, ora; quel maledetto Penkawr deve avere provocato una frana.»

Lo stesso Carse non credeva a quelle parole. Non credeva affatto alle spiegazioni che aveva trovato, eppure si sforzava di credere, costringere la sua niente ad accettare quelle ipotesi, e le pronunciava a voce alta, da solo, per udire il suono rassicurante della propria voce, perché gli pareva che le parole, sotto forma di suoni, acquistassero realtà e veridicità e fugassero i suoi timori. Voleva credere a quelle spiegazioni, perché cominciava ad avere paura, una paura che cresceva in lui, ingigantiva a ogni istante. E la cosa di cui aveva paura era impossibile.

Pervaso da un impeto di collera cieca, violenta, egli usò il raggio fiammeggiante della pistola per aprire un varco nella solida massa di terriccio che gli ostruiva la strada, dirigendo il raggio verso il basso, seguendo un disegno metodico, preciso. Lavorò a quel modo, tenendo ostinatamente premuto iljpulsante della pistola, avanzando lentamente, faticosamente verso l’esterno, fino a quando la fiamma non diede un guizzo tremulo e si spense, perché la carica dell’arma era esaurita. Allora Carse gettò via, rabbiosamente, la pistola ormai inutile, e attaccò la massa di terriccio fumante e rovente con la spada.

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