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Boghaz sbuffò.

«Senti, amico, va bene fingere di essere ignorante, ma questo significa spingere il gioco troppo oltre! Non esiste tribù, per quanto lontana sia la sua terra, che non conosca e non tema il maledetto Serpente!»

Così ’Serpente’ era un nome generico che serviva a indicare i misteriosi Dhuviani? Carse si domandò, perplesso, per quale motivo essi venissero chiamati in quel modo.

Il terrestre s’accorse, d’un tratto, che la donna Nuotatrice lo stava fissando intensamente. Per uno sconcertante momento, ebbe la inesplicabile sensazione che ella gli stesse leggendo nel pensiero.

«Shallah ci sta guardando… meglio tacere, per il momento,» lo ammonì subito, Boghaz, sottovoce. «Tutti sanno che gli Halfling sono capaci di leggere nel pensiero, almeno un poco.»

Se era davvero così, pensò con cupa soddisfazione Carse, Shallah la Nuotatrice doveva avere trovato nei suoi pensieri delle cose strane e sorprendenti per lei, e avrebbe dovuto faticare molto, per capirle.

Lui era caduto su di un mondo completamente sconosciuto, un Marte di un’epoca ancor più antica delle ancestrali leggende del rosso pianeta morente del suo tempo, e gran parte dei costumi e della vita di quel mondo erano ancora un mistero, per lui.

Ma se Boghaz aveva detto la verità, e non vedeva per quale motivo avrebbe dovuto essere altrimenti, se gli strani oggetti che egli aveva visto nella Tomba di Rhiannon erano davvero gli strumenti di una scienza antica e immensamente progredita, e se su Marte quella scienza era andata perduta, kii che in quel momento era uno schiavo teneva tra le mani la chiave di un segreto desiderato e cercato da tutti gli abitanti di quel mondo.

Quel segreto poteva essere la sua salvezza, ma poteva anche essere la sua morte. Doveva custodirlo gelosamente, fino a quando non fosse riuscito a riacquistare la libertà, fino a quando non fosse riuscito a sciogliere le catene che lo tenevano prigioniero. Perché ormai la tremenda emozione, l’ottuso stupore che gli aveva ottenebrato la mente e che gli aveva quasi paralizzato il corpo, si erano in parte dissipati; e al loro posto ardeva, dentro di lui, la determinazione rabbiosa di riconquistare la libertà perduta, e di vendicarsi dei fieri e arroganti Sark che lo avevano imprigionato, e per i quali cominciava a provare un odio violento. Ogni cosa che lo circondava era avvolta dalle nebbie del mistero, ma sulla sua determinazione non v’erano dubbi. Era una certezza, la certezza alla quale doveva aggrapparsi, per dare una traccia logica al suo cammino su quel mondo nuovo e antico nel quale era precipitato.

Il sole era ormai alto nel cielo, e i suoi raggi cadevano impietosamente perpendicolari nella fossa scoperta dei rematori. Il vento mormorava tra le sartie, tra gli alti alberi, e gonfiava le vele, ma non portava alcun sollievo alla calura che gravava in quella fossa. Gli uomini abbrustolivano sui loro banchi, come pesci sulla graticola, e fino a quel momento nessuno aveva^portato loro del cibo o dell’acqua.

Carse guardava, con occhi socchiusi e pieni d’odio, i soldati Sark che oziavano, con portamento arrogante, sul ponte che dominava la fossa dei rematori. Sullo stesso ponte, a poppa, sorgeva isolata una cabina bassa, la cui porta rimaneva chiusa. Sul tetto piatto stava in piedi il timoniere, un massiccio marinaio Sark che teneva la pesante ruota del timone, e prendeva gli ordini da Scyld.

Anche Scyld era là, in piedi, accanto al timoniere, con la barba a punta sollevata, e gli occhi che fissavano il lontano orizzonte, oltre i miseri prigionieri curvi sui remi. Di quando in quando, egli impartiva un ordine, secco e aspro, al timoniere.

E finalmente arrivarono le razioni… pane nero, e un boccale d’acqua, portati da uno degli strani schiavi alati che Carse aveva già visto brevemente a Jekkara. La folla li aveva chiamati Celesti.

Carse studiò con profondo interesse la creatura alata. Pareva un angelo mutilato, con le splendide ali luminose crudelmente mozzate, e il bel viso sofferente. Si muoveva lento lungo la passerella, distribuendo le razioni, come se il camminare, per lui, fosse un pesante fardello. Non sorrideva e non parlava a nessuno, e i suoi occhi erano velati.

Shallah lo ringraziò, per il cibo che le aveva dato. Il Celeste non la guardò neppure, ma prosegui lentamente, trascinando il cesto vuoto. La Nuotatrice si rivolse a Carse:

«Muoiono quasi tutti, quando hanno le ali mozzate,» spiegò.

Carse capì che lei alludeva a una morte dello spirito. E la vista di quell’Halflìng dalle ali mozzate, stranamente, rinfocolò il suo odio per i Sark, un odio più profondo di quello che già provava per essere stato ridotto in schiavitù.

«Maledetti i bruti che hanno potuto fare una cosa simile!» borbottò.

«Sì, maledetti siano coloro che si associano nella malvagità all’infame Serpente!» brontolò cupamente Jaxart, il grande Khond incatenato al loro remo. «Sia maledetto il loro re, e la sua perversa figlia Ywain! Se ne avessi la possibilità, farei affondare sotto le onde questa nave, con tutti noi a bordo, per porre rimedio alle malefiche macchinazioni che certamente essa avrà preparato a Jekkara!»

«Perché non si è ancora mostrata?» domandò Carse. «È così delicata da restarsene chiusa nella sua cabina per tutto il viaggio fino a Sark?»

«Delicata quella strega?» Jaxart sputò, per esprimere il suo disprezzo, e aggiunse, «Si starà abbandonando ai più sfrenati piaceri con l’amante che tiene nascosto nella sua cabina. L’ho visto salire furtivamente a bordo a Sark, incappucciato e avvolto in un pesante mantello, e da allora non è più uscito; ma noi l’abbiamo visto!»

Shallah guardò la cabina, e i suoi occhi erano enormi e fissi e velati.

«Non è un amante che tiene nascosto nella sua cabina,» disse, sommessamente. «Ma è il volto stesso del male. L’ho sentito, quando è salito a bordo.»

Poi rivolse il suo sguardo luminoso, sconvolgente su Carse, e aggiunse:

«Credo che ci sia una maledizione anche sopra di te, straniero. Posso sentirne la presenza, ma non riesco a capire chi tu sia.»

Anche questa volta, Carse rabbrividì. Quegli Halfling, grazie ai loro poteri extrasensoriali, erano in grado di intuire, sia pure vagamente, la sua incredibile origine, potevano rendersi conto del fatto che lui era completamente straniero. Provò un senso di sollievo quando Shallah e Naram, il suo compagno, si voltarono da un’altra parte.

Più volte, nel corso delle ore che seguirono, Carse si accorse di alzare quasi meccanicamente lo sguardo verso il ponte di poppa, nella speranza di vedere Ywain di Sark, della quale era schiavo. C’era una cupa curiosità, in luì, che non riusciva completamente a spiegare.

Verso la metà del pomeriggio, dopo aver soffiato con forza per ore e ore, il vento cominciò a calare, e infine cadde completamente, e sul mare di latte si fece una grande bonaccia.

Si udì il rullare lento, minaccioso del tamburo. I remi s’immersero nelle acque pallide e immobili, e ancora una volta Carse cominciò a sudare per la fatica di un lavoro per lui sconosciuto, con la schiena segnata dai crudeli morsi dello scudiscio.

Soltanto Boghaz pareva felice.

«Io non sono un uomo di mare,» disse, scuotendo la testa enorme. «Per un Khond come te, Jaxart, navigare sulle acque tempestose è naturale come l’aria che respiri. Ma da giovane io ero delicato, e la mia salute cagionevole mi ha costretto a scegliere strade più tranquille e meno faticose. Ah, benedetta bonaccia! Anche l’estenuante fatica del remo è preferibile all’essere sballottato come un povero ramoscello dalle onde!»

Carse provò un poco di compassione, nell’udire quel patetico discorso, fino a quando scoprì che Boghaz aveva buoni motivi per non dolersi troppo della fatica, poiché, parlando, cercava di distrarre i due compagni, in modo che essi non si accorgessero che lui stava semplicemente accompagnando il movimento del remo, mentre Carse e Jaxart sostenevano tutta la fatica. Allora Carse diede al Valkisiano un colpo che per poco non lo fece schizzare via dal banco; e da quel momento anche il grasso furfante si sottopose alla sua parte di fatica, lamentandosi e sbuffando rumorosamente.

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