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Tung, ricordò Miles, era un esperto di storia militare ed uno dei più entusiasti ammiratori di suo padre. Anche se teneva per sé il suo hobby, avrebbe potuto recitare a memoria ogni particolare delle campagne belliche dell'ammiraglio barrayarano. — Vedrò se posso organizzarti un incontro — gli promise.

— Ragazzo, se tu riuscissi davvero a farlo… — Tung scosse il capo e lasciò da parte le considerazioni legate alla storia militare per l'altra sua passione, senz'altro più immediata e urgente: quella di essere fra coloro che ne scrivevano, sul campo, qualche riga.

Le navi cetagandane si videro costrette ad allontanarsi, dapprima singolarmente, sfuggendo qua e là, poi in gruppi più ordinati che cercavano di organizzare una ritirata col minimo di perdite. Il Principe Serg e la flotta alleata non persero tempo ad aspettare la loro risposta: le inseguirono e le attaccarono con tutta la violenza possibile, per impedire che pianificassero una resistenza efficace. Nelle ore successive la ritirata divenne sempre più scoordinata e confusa, mentre anche le forze vervane attestate a protezione del pianeta abbandonavano l'orbita per tagliare la strada agli invasori in rotta. I vervani attaccarono senza pietà, dando la caccia alle navi cetagandane con la furiosa sete di vendetta di chi ha dovuto temere la tracotante sopraffazione di un nemico spietato.

I particolari organizzativi, la stressante attività per riparare i danni, ed i problemi del recupero dei naufraghi rimasti alla deriva in una vasta zona di spazio, assorbirono l'attenzione di Miles al punto che solo alcune ore più tardi cominciò a rendersi conto che per la Flotta dei Mercenari Dendarii la guerra finiva lì. Ciò che dovevano fare era stato fatto.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Prima di uscire dalla sala tattica Miles, per prudenza, chiamò la sicurezza interna della Triumph e s'informò su come procedeva la ricerca dei prigionieri evasi. Quelli definiti al momento ancora irreperibili erano Oser, il capitano della Peregrine e altri due ufficiali oserani, la comandante Cavilo e il generale Metzov.

Miles era quasi certo d'aver visto Oser e gli altri fuggiaschi esplodere in cenere radioattiva sui monitor. C'erano stati anche Cavilo e Metzov a bordo della navetta? Che ironia per la bionda mercenaria finire così ad opera dei cetagandani. Ma non le sarebbe accaduto nulla di diverso se avesse dovuto rispondere delle sue manovre ai Randall Rangers, agli aslundiani, ai vervani, ai barrayarani o a chiunque fra quelli che aveva ingannato nella sua breve e movimentata comparsa al Mozzo Hegen. Era uscita di scena (se era davvero così) nel modo più pulito e conveniente per tutti, anche se le sue ultime parole avevano lasciato a Miles l'amaro sapore profetico delle maledizioni di chi era atteso dall'inferno. A preoccuparlo, comunque, era più l'ipotesi che Metzov si fosse nascosto da qualche parte per tendergli un agguato. Prese con sé uno dei mercenari di guardia in corridoio e si fece scortare al suo alloggio.

Per strada incrociò una fila di feriti sbarcati da una navetta, che venivano trasportati nell'infermeria della Triumph. La nave ammiraglia, pur seguendo gli scontri con il gruppo di riserva non aveva incassato colpi che i suoi scudi non potessero assorbire, ma poche erano state così fortunate. L'elenco delle perdite, nelle battaglie spaziali, aveva caratteristiche opposte a ciò che avveniva su un pianeta; i morti erano assai più dei feriti, anche se gli ambienti stagni dei relitti alla deriva consentivano ai superstiti di sperare nell'arrivo dei soccorsi. Angosciato da ciò che vedeva Miles cambiò strada e seguì la triste processione. Di che utilità poteva essere lui nell'infermeria?

Le squadre di recupero non avevano certo mandato alla Triumph i casi più facili. Sulle barelle di testa c'erano tre gravissimi casi di ustioni e una frattura cranica, e il personale di sala operatoria cominciò a occuparsene subito. Alcuni mercenari erano consci e attendevano con calma il loro turno, immobilizzati dai campi-rete d'energia delle barelle, lo sguardo annebbiato dai sedativi.

Miles cercò di dire qualche parola a ciascuno di loro. Tre o quattro non lo udirono neppure, altri sembrarono apprezzarlo. Lui fece del suo meglio per incoraggiare e distrarre questi ultimi, commosso nel vederli compatire le condizioni dei compagni feriti ancor più gravemente di loro. Poi andò a bere qualcosa e restò sulla porta per alcuni minuti, immerso negli spiacevoli odori di un'infermeria dopo la battaglia: sangue, disinfettante, carne bruciata, urina, apparecchiature surriscaldate, finché s'accorse che la stanchezza l'aveva ridotto in uno stato di stordimento tale che stava tremando, sull'orlo delle lacrime. Depose il bicchiere di carta e uscì. Un letto. Se qualcuno lo voleva, avrebbe potuto venire a cercarlo più tardi.

Batté il codice sulla serratura dell'alloggio di Oser. Ora che l'aveva ereditato, gli sarebbe forse convenuto modificare la combinazione. Scrollò le spalle ed entrò. Pochi istanti dopo nella sua mente penetrò la consapevolezza di due fatti allarmanti. Primo: quando aveva rimandato indietro l'uomo di scorta s'era dimenticato di dirgli che tornasse a prenderlo all'infermeria. Secondo: non era solo. Il suo passo indietro fu inutile; la porta s'era chiusa prima che l'istinto gli suggerisse di tornare in corridoio.

La faccia arrossata del generale Metzov era ancor più minacciosa dell'argentea parabola del distruttore neuronico che aveva in pugno, puntato dritto verso la sua testa.

L'uomo s'era procurato da qualche parte un'uniforme grigia e bianca da Dendarii, un po' troppo piccola per le sue misure. La comandante Cavilo, più indietro, ne indossava una uguale e troppo larga per lei. Metzov era teso, fremente e inferocito. Cavilo appariva… strana. Aspra, ironica, freddamente divertita. Sul suo collo candido c'era un'escoriazione. Non portava armi.

— Ora sei mio — sussurrò Metzov, trionfante. — Ora chiudiamo il conto. — Sorridendo di un sorriso distorto avanzò verso di lui e lo prese per il collo con una delle sue grosse mani, schiacciandolo contro la parete. Poi lasciò cadere il distruttore neuronico, che rimbalzò sul pavimento, lo attanagliò alla gola anche con l'altra mano e cominciò a stringere lentamente.

— Non potete sopravvivere. Non… — fece in tempo a gorgogliare Miles prima che la sua voce si strozzasse. Poté sentire la trachea cedere e cominciare a spezzarsi sotto la pressione dei pollici; il sangue gli riempì la testa e gli occhi con una violenza sorda che lo stordì. Niente, comprese, avrebbe impedito a Metzov di ucciderlo e di vendicarsi, neppure la prospettiva della morte certa…

Cavilo scivolò avanti, silenziosa e furtiva come un gatto, raccolse il distruttore neuronico e si spostò di lato, girando lungo la parete alla sinistra di Miles.

— Stanis, mio caro — tubò dolcemente. Assorto nell'estasi del graduale strangolamento di Miles, Metzov non si volse neppure a guardarla. — Ricordi l'ultima frase d'amore che mi hai detto? «Apri le gambe, cagna, o ti rompo la schiena». Che tesoro… sentirò molto la mancanza del tuo affetto, Stanis, sul serio.

Il tono della bionda indusse Metzov a girarsi a mezzo, perplesso. Sbarrò gli occhi. La vampa d'energia azzurrina si rifletté in essi per un breve attimo, prima di fondergli il contenuto delle orbite in una pappa ardente e cuocergli il cervello. Per poco Miles non ebbe il collo spezzato nella convulsione spasmodica che contrasse la muscolatura dell'uomo. Poi sentì il tonfo del corpo che si abbatteva al suolo. L'odore di ozono sparso nell'aria dalla scarica entrò nelle sue narici insieme a quello acre della carne bruciata.

Miles restò con le spalle al muro, ansando, senza osare muoversi. Mise a fuoco lo sguardo sul cadavere, poi lo alzò verso Cavilo. Le belle labbra di lei erano ricurve in un sorriso d'immensa e serena soddisfazione. C'era da dubitare che non fosse stata proprio lei a richiedere a Metzov una fraseologia da postribolo, nei loro momenti d'intimità. Avevano ingannato quelle ore d'attesa nella camera da letto di Oser, libera dagli apparati d'ascolto? Strano che il generale non avesse capito che in lei la meccanica dell'orgasmo era azionata da qualcosa di assai più morboso del sesso. Il silenzio si prolungò per molti secondi.

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