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Strano. Perché non penso mai alla mia ambizione di avere il comando di una nave come mia madre prima di me? Al capitano Cordelia Naismith, della Sorveglianza Astronomica Betana, era spettata la rischiosa impresa di espandere il corridoio di transito della distorsione galattica balzo dopo balzo, alla cieca, in nome della scienza e dell'umanità, per il progresso della Colonia Beta e per… cos'era stato a spingere lei personalmente? Aveva avuto il comando di una nave da esplorazione con sessanta persone a bordo, lontano da casa e da ogni aiuto, e senza dubbio la sua carriera non era stata priva di aspetti invidiabili. Gli ordini dei superiori, ad esempio, dovevano esser stati poco più che una finzione legale in quelle zone di spazio inesplorate, dove i desideri del Quartier Generale Betano erano ridotti al livello di una scommessa contro l'ignoto.

Cordelia Naismith navigava ora senza sollevare onde nell'alta società di Barrayar, e soltanto i suoi pochi intimi capivano quanto ne fosse distaccata. Non temeva nessuno, neppure il temuto Illyan, e nessuno la controllava, neppure lo stesso ammiraglio. Era quella sua aria da avventuriera, si chiese Miles, a renderla così inquietante? Il capitano dell'ammiraglio. C'era stato un tempo in cui seguirla nella sua strada era come camminare nel fuoco.

— Cosa sta succedendo fuori di qui? — domandò Miles. — Questo posto è divertente come la cantina di un'agenzia di pompe funebri. Hanno stabilito se io sono un ammutinato oppure no?

— Non credo — disse la Contessa. — Il Servizio sta dando il benservito a tutti gli altri, il tuo tenente Bonn e soci, ma senza disonore, anche se non avranno la pensione né tantomeno quei rango di Vassallo Imperiale che sembra importare più della vita ai maschi barrayarani.

— È un po' come essere riservisti di lusso su Beta — disse Miles. — E le reclute del plotone? E di Metzov cosa sai dirmi?

— Lo stanno scaricando come gli altri. Lui è quello che ci perde di più, direi.

— Lo lasciano in libertà? — borbottò Miles, accigliato.

La Contessa Vorkosigan scrollò le spalle. — Visto che nessuno ci ha rimesso la pelle, Aral si è persuaso che mandarlo davanti a una corte marziale sarebbe controproducente. In quanto alle reclute, hanno deciso di non coinvolgerle nella cosa. Sono ragazzi.

— Mmh. Mi fa piacere, questo. Ma, uh… e io?

— Tu resti ufficialmente nell'elenco dei detenuti della Sicurezza Imperiale. A tempo indefinito.

— Indefinito è proprio come mi sento qui dentro. — Poggiò le mani sul lenzuolo. Aveva le nocche delle dita ancora arrossate. — Quanto tempo?

— Quello che basta per ottenere un certo effetto psicologico.

— E quale, farmi uscire di senno? Altri tre giorni e comincerò ad arrampicarmi sui muri.

Lei ebbe una smorfia. — Il tempo sufficiente a convincere la fazione dura dei militaristi che sei stato ben punito per il tuo, uh, crimine. Finché corre voce che sei imprigionato nei sinistri sotterranei di questo edificio, quei signori possono immaginarti in un modo che li soddisfa… qualunque cosa pensino che succeda qui sotto. Se fossi visto mentre ti aggiri nei ristoranti e nei locali notturni, come sospetto che tu stia fantasticando, sarebbe difficile mantenerli in questo stato d'animo.

— Mi sembra tutti così… irreale. — Miles si abbandonò contro i cuscini. — Io volevo solo fare il mio dovere.

Un breve sorriso sfiorò le labbra di lei, ma svanì subito. — Tesoro, te la senti di considerare un altro lavoro?

— Essere un Vor è più di un semplice lavoro.

— Sì, è una patologia. Un'ossessione brulicante di miraggi. C'è un'intera galassia fuori di qui, Miles. Ci sono altri modi di fare il tuo dovere, verso una più larga… società.

— Allora perché tu stai qui? — replicò lui.

— Ah. — Lei ebbe un sorrisetto paziente a quella stoccata. — A volte gli esseri umani hanno necessità più persuasive di un fucile alla schiena.

— A proposito di papà, credi che verrà a farmi visita?

— Mmh, no. Dovrà dare a vedere che ti tiene a distanza, per un po' di tempo. In modo di non dare l'impressione che approva il tuo ammutinamento, mentre cerca di tirarti fuori salvo dai rottami. Ha deciso di mostrarsi pubblicamente irritato con te.

— E lo è?

— No, naturalmente. Tuttavia… aveva dei progetti a lunga scadenza per te, nel suo schema di riforme socio-politiche, basati sul tuo solido successo nella carriera militare… lui ha sempre cercato di mettere anche le tue stesse sofferenze al servizio di Barrayar.

— Già. Lo so.

— Be', non preoccuparti. Senza dubbio riuscirà a escogitare il modo di tirar fuori il meglio anche da questa situazione.

Miles sospirò cupamente. — Io voglio qualcosa da fare. E voglio che mi restituiscano i vestiti.

Sua madre lo guardò con rammarico e scosse il capo.

Quella sera provò a telefonare a Ivan.

— Dove sei? — domandò il cugino, in tono sospettoso.

— Inchiodato nel limbo.

— Be', guarda di fare in modo che non inchiodino anche me, — disse bruscamente Ivan, e troncò la comunicazione.

CAPITOLO SETTIMO

Il mattino dopo Miles fu trasferito in un nuovo alloggio. Un ufficiale lo condusse un piano più in basso, abbassando ancor di più le sue speranze di rivedere la luce del sole, e gli assegnò una delle camere destinate ai testimoni che la Sicurezza proteggeva in attesa del processo. E alle persone, pensò Miles, ridotte allo stato sociale di non-persone. Possibile che quei giorni nel limbo l'avessero, per contagio, trasformato in qualcuno che tutti ormai preferivano tenere fuori dalla realtà?

— Quanto dovrò stare qui? — chiese all'ufficiale.

— Non saprei, alfiere — rispose lui, e lo lasciò solo.

La sacca da viaggio, il baule pieno di indumenti buttati lì e una scatola confezionata alla meglio lo attendevano sul pavimento della stanza. I suoi beni terreni dell'isola Kyril. Miles li passò in rassegna — sembrava esserci tutto, inclusi i libri di meteorologia — ed esaminò l'alloggio. Era un appartamentino monocamera, ammobiliato nel severo stile di vent'anni addietro, con due sedie di legno, un letto, un angolo attrezzato a cucina, due armadi di forma diversa e alcuni scaffali vuoti. Nessun oggetto o indumento abbandonato che accennasse all'esistenza di precedenti inquilini.

Dovevano esserci microspie dappertutto. Ogni superficie lucida poteva nascondere la lente di una telecamera, e i microfoni erano probabilmente sepolti nei muri. A quale stanza di controllo erano collegati? Oppure, indifferenza ancor più irritante, Illyan non aveva neppure ordinato di accenderli?

Decise di fare due passi. In fondo al corridoio c'erano una guardia e alcuni monitor per la sorveglianza, ma all'apparenza nessun altro inquilino. Miles scoprì che poteva prendere l'ascensore e aggirarsi nel resto dell'edificio, salvo che nelle zone per cui occorreva un lasciapassare; ma gli uomini di guardia agli ingressi, informati della sua identità, gli vietarono con cortese fermezza di uscire in strada. Lui rifletté che avrebbe sempre potuto calarsi giù da qualche finestra… per farsi sparare, magari, e rovinare così la carriera di una povera guardia.

Un ufficiale della Sicurezza lo trovò che vagabondava all'ultimo piano, lo ricondusse nel suo alloggio, gli diede una manciata di banconote e di spiccioli per il bar-ristorante dell'edificio e alluse con molta enfasi che si sarebbe fatto apprezzare di più se fosse rimasto in camera fra un pasto e l'altro. Miles lo ringraziò docilmente e poi contò il denaro, cercando di dedurne la durata della sua permanenza lì. Avrebbe potuto bastare per un centinaio di pasti, se avesse lasciato laute mance. Il groppo di saliva che deglutì fu amaro come il veleno.

Tirò fuori il contenuto della sacca e del baule, mandò tutti gli indumenti già usati alla lavanderia sonica per eliminare l'odore umido di Campo Cessofreddo, appese le giacche, lucidò gli stivali, sistemò i suoi pochi oggetti sugli scaffali, fece la doccia e poi indossò un'uniforme verde pulita.

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