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— L'alba. — Bonn era pallido, spettinato, e aveva l'aria di non poterne più. Si gettò a sedere sull'altra branda con un grugnito stanco, sofferente.

— Cosa sta succedendo?

— La Sicurezza del Servizio è dappertutto. Sono arrivati in volo poco fa dal continente, con un capitano che ha preso in mano la faccenda. Metzov gli sta riempiendo le orecchie di balle. Per adesso credo che si limiteranno a prendere le deposizioni.

— Il fetaine è bruciato tutto?

— Seeh. — Bonn ebbe un sogghigno aspro. — Ho dovuto stare laggiù finora, e firmare una dichiarazione di responsabilità al termine del lavoro. Il bunker ha resistito bene, però, come un forno.

— Alfiere Vorkosigan, ora vogliono lei — disse la guardia che aveva scortato Bonn. — Venga con me.

Miles si tirò in piedi e barcollò verso la porta. — Ci vediamo più tardi, tenente.

— D'accordo. Se vede qualcuno diretto verso la mensa, usi la sua influenza politica per convincerlo a portare un vassoio da queste parti.

Lui sorrise debolmente. — Ci proverò.

Miles seguì la guardia nel breve corridoio fra le celle. La prigione della Base Lazkowski non si poteva definire esattamente un carcere ad alta sicurezza; era una baracca come le altre, a parte l'assenza delle finestre, con porte interne che difficilmente venivano chiuse. Il maltempo era di solito il secondino più efficiente, per non parlare dei cinquecento chilometri di mare gelido che circondavano l'isola.

Quel mattino all'ufficio della Sicurezza della Base c'era molta attività. Ne sorvegliavano la porta due sconosciuti dall'aria dura, un tenente e un sergente con l'Occhio di Horus della Sicurezza Imperiale sul petto dell'uniforme verde. Sicurezza Imperiale, non Sicurezza del Servizio. Quella che Miles conosceva meglio, e che aveva sempre vegliato sulla sua famiglia e affiancato l'attività politica di suo padre. La loro presenza lo sollevò come quella di un vecchio amico.

L'impiegato dell'ufficio della Sicurezza della Base sembrava molto indaffarato; su tutti gli schermi della sua consolle lampeggiava qualcosa di urgente. — Alfiere Vorkosigan? Si avvicini, signore. Mi serve l'impronta del suo palmo su questo.

— Come vuole. Posso sapere cosa sto firmando?

— Solo il foglio di viaggio, signore.

— Dove, uh… — Miles gli mostrò le mani, lucide di gel. — Quale piastra?

— Quella a destra. Sì, penso che possa andar bene anche così, signore.

Con una certa difficoltà Miles appoggiò il palmo sinistro sulla piastra sensibile. La pomata trasparente in cui il medico gli aveva fatto inzuppare le mani era contro i geloni, e copriva la pelle arrossata e dolorante con uno strato ormai quasi solido. Gli dava un noioso prurito alle dita. Occorsero tre tentativi, premendo forte sulla piastra, perché il computer lo riconoscesse.

— Ora lei, signore — disse l'impiegato al tenente della Sicurezza Imperiale. L'ufficiale appoggiò di malavoglia una mano sulla piastra ed ottenne l'approvazione del computer. Osservò con una smorfia le sue dita sporche di pomata e si guardò attorno, in cerca di qualcosa per asciugarsele; poi si rassegnò a estrarre di tasca il fazzoletto e ad insozzare quello. L'impiegato ripulì nervosamente la piastra con una manica della sua uniforme, quindi premette un tasto dell'intercom.

— Sono contento di vedervi, ragazzi — disse Miles al tenente della Sicurezza Imperiale. — Avrei voluto che foste qui ieri sera.

L'ufficiale non rispose al suo sorriso. — Io ho soltanto funzioni di scorta, alfiere. Non posso discutere il suo caso.

Il generale Metzov apparve sulla porta dell'ufficio interno, con un foglio di plastica in mano e seguito da un capitano della Sicurezza del Servizio, il quale rivolse un cauto cenno del capo alla sua controparte imperiale.

Metzov sembrava di ottimo umore. — Buongiorno, alfiere Vorkosigan. — Il suo sguardo indugiò sul tenente senza il minimo disappunto, e Miles imprecò dentro di sé: dannazione, la presenza della Sicurezza Imperiale avrebbe dovuto far tremare quel quasi-assassino nella sua sportiva uniforme da combattimento. — Sembra che nel suo caso ci sia un risvolto di cui non m'ero reso conto. Quando un Lord Vor è coinvolto in un ammutinamento, la legge prevede che sia accusato di alto tradimento.

— Cosa? — Miles si sforzò di abbassare la voce. — Tenente, la Sicurezza Imperiale non mi considera in arresto, è così?

L'ufficiale estrasse un paio di manette e provvide a collegare il polso destro di Miles a quello sinistro del sergente. «Keller» era il nome inciso sulla piastrina del graduato, che lui ribattezzò mentalmente in «Killer». Era così robusto e massiccio che alzando il braccio avrebbe potuto sollevarlo di peso dal suolo.

— Lei è in stato di detenzione, in attesa di ulteriori indagini — disse il tenente in tono formale.

— Per quanto tempo?

— Indefinitamente.

L'ufficiale si avviò alla porta, seguito dal sergente con Miles a rimorchio. — Dove mi portate? — si allarmò lui.

— Al Quartier Generale della Sicurezza Imperiale.

Vorbarr Sultana! - Devo passare a prendere le mie cose…

— Il suo appartamento è già stato liberato.

— Ma potrò tornare qui?

— Io non lo so, alfiere.

La pallida aurora di Campo Cessofreddo stava ancora spargendo una luce giallognola nella foschia orientale quando la motopulce li scaricò in fondo alla pista. La navetta sub-orbitale della Sicurezza Imperiale poggiava sulla crosta di neve come un uccello da preda atterrato in un nido di piccioni. Nera e snella, irta di armi micidiali, sembrava infrangere la barriera del suono anche da ferma. Il pilota, in cabina, stava già accendendo i motori.

Miles salì goffamente la scaletta al seguito del sergente Killer, cercando di sopportare l'umiliante disagio delle manette. Il vento aveva girato da nord ovest, intensificandosi. La temperatura avrebbe continuato ad aumentare fino a mezzogiorno, quel mattino, e l'odore umido dell'aria gli disse che prima di sera la pioggia avrebbe trasformato lo strato di neve in una morchia disgustosa. Buon Dio, era proprio l'ora di andarsene da quell'isola.

Miles inalò un'ultima boccata dell'aria esterna, poi il portello si chiuse con un sibilo da rettile. Nell'interno stagnava un silenzio ovattato che il ronzio dei motori penetrava a stento.

Se non altro era caldo.

CAPITOLO SESTO

Nella città di Vorbarr Sultana l'autunno era la più bella stagione dell'anno, e quel giorno ne costituiva un esempio. Il cielo era di un azzurro luminoso, la temperatura fresca, ideale, e neppure i fumi della periferia industriale guastavano l'odore dell'aria. I fiori autunnali stavano già appassendo, ma gli alberi importati dalla Terra indossavano i loro colori più accesi. Mentre lo facevano scendere dal furgone di fronte all'ingresso posteriore del grande edificio dove aveva sede la Sicurezza Imperiale, Miles si volse a guardare uno di quegli alberi dall'altra parte della strada, un acero terrestre con le foglie color cornalina e il tronco grigio-argento. Poi la porta si chiuse alle sue spalle. Miles tenne quell'albero davanti agli occhi della mente e cercò di memorizzarne ogni particolare, nel caso che non fosse riuscito a vederne un altro mai più.

Il tenente esibì dei documenti che accelerarono il passaggio di Miles e di Keller oltre alcune porte sorvegliate, e li precedette in un labirinto di corridoi fino agli ingressi di due ascensori tubolari. Entrarono in quello di salita, non nell'altro. Dunque non lo portavano direttamente nel blocco di celle ultrasicure sotto l'edificio. Si chiese cosa poteva significare, e subito desiderò disperatamente essere entrato nel tubo di discesa.

Furono introdotti in un reparto dei piani superiori, dove un capitano della Sicurezza aprì col telecomando la porta di un ufficio interno. Qui un uomo magro d'aspetto comune, grigio alle tempie, vestito con abiti civili, sedeva a una larga scrivania studiando qualcosa su uno schermo. Rivolse un cenno alla scorta di Miles. — Grazie, tenente, sergente. Potete andare.

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