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— Interessante. Di che si tratta? — disse Reich prendendo in mano quel volume ingiallito. Giochi di società di Nita Noyes. — Di che epoca è? Credete che davvero facessero riunioni e inviti tanto tempo fa?

I commessi lo assicurarono che gli antichi erano modernissimi in tanti modi sorprendenti.

— Ma guarda un po’! — disse Reich. — Bridge da luna di miele… Whist alla prussiana… Ufficio postale… Sardina. Ma che cosa diavolo può essere? Pagina 96. Vediamo un po’.

Reich sfogliò il volume finché trovò una pagina dal presuntuoso titolo Giochetti ameni. — Ma guarda — rise, indicando il ben noto paragrafo.

Un giocatore viene scelto a fare da Sardina. Si spengono tutte le luci e la Sardina si nasconde da qualche parte in casa. Dopo qualche minuto gli altri ne vanno in cerca separatamente. Il primo che la trova non lo dice a nessuno, ma si nasconde con lei, là dove l’ha trovata. Successivamente ogni giocatore trovando le Sardine si unisce al gruppo finché tutti si trovano nascosti in un unico posto e l’ultimo giocatore, che è il perdente, vien lasciato vagare solo al buio.

—  Lo prendo — disse Reich. — È proprio quello che ci vuole per un de… per un amico.

Quella sera passò tre ore a deturpare accuratamente il resto del volume. Con fumo, acidi, inchiostro e forbici rese illeggibili le spiegazioni degli altri giochi e ogni bruciatura, taglio, macchia erano come altrettanti colpi inferti al corpo di D’Courtney. Quando questi suoi pseudo delitti furono compiuti, delle istruzioni relative a ogni gioco non restavano che pochi frammenti. Solo Sardina rimaneva intatto.

Reich infilò il libro in una grossa busta su cui scrisse l’indirizzo di un famoso perito e lo lasciò cadere nella buca della posta pneumatica. Vi cadde con un lieve tonfo, e un’ora dopo era di ritorno con il sigillo dell’approvazione ufficiale del perito. Le mutilazioni di Reich erano state interpretate come semplici segni di antichità e non avevano destato sospetti.

Fece avvolgere il libro in un elegante pacchetto, lo sigillò come era l’uso, e lo spedì a Marie Beaumont. Venti minuti dopo ricevette la risposta, naturalmente scritta dalle mani della donna.

Carissimo! Pensavo che ti fossi dimenticato di mio fascino. Vieni a casa Beaumont stasera. Abbiamo un ricevimento. Giocheremo giochi di tuo bel regalo. Accluso vi era un ritratto di Marie scolpito nel centro di un rubino sintetico.

Reich rispose: Abbattutissimo. Per stasera, niente. Ho perduto uno dei miei milioni.

Lei rispose: Mercoledì ti darò uno dei miei.

Lui rispose: Lieto di accettare. Porterò ospiti. Ti bacio. E andò a dormire.

E gridò alla vista dell’Uomo senza Volto.

Mercoledì mattina Reich visitò i laboratori della Sacramento e ne approfittò per scivolare non visto nella Segreta e impadronirsi di uno ionizzatore Rhodopsin, un tubo di rame grande la metà di una capsula fulminante, ma pericoloso il doppio di un normale cronoteleruttore.

Sarebbe scoppiato il finimondo se si fosse notata tale perdita nella stesura dell’inventario settimanale, e uno dei brillanti giovanotti avrebbe potuto aver guai con il governatore e buscarsi una condanna; ma per quel giorno il corpo di D’Courtney sarebbe già stato un cadavere putrescente.

Mercoledì pomeriggio Reich si recò in Melody Lane, nel cuore del quartiere dei Panty, e fece una capatina alla casa psicomusicale. Ci lavorava una ragazza molto sveglia che aveva composto certi motivetti spiritosi per il Reparto Vendite e canzonette di grande effetto per l’Ufficio Pubblicità ai tempi in cui la Sacramento si batteva all’ultimo sangue per soffocare certi moti operai, lassù nella Cintura degli Asteroidi.

Si chiamava Duffy Wygs; lei insisteva nell’affermare che Duffy non era un soprannome. Per anni e anni si era usato quel nome nella sua famiglia.

— Bene, Duffy? — La baciò.

— Bene, signor Reich. Ancora questo orribile tweed? Si capisce che non avete una donna che pensi a voi. — Lo guardò con aria strana. — Un giorno o l’altro ricorrerò a una telespia pro-Cuori Solitari e le farò diagnosticare il vostro modo di baciare. Insisto col credere che baciando non intendiate affatto far proposte.

— È così.

— Non siete affatto carino.

— Un uomo deve difendersi, Duffy. Quando bacia una ragazza non fa che dare il bacio d’addio al proprio denaro.

— Gli uomini! — esclamò la ragazza con aria disgustata. — Benissimo, bello mio. Che problema vi assilla?

— Il gioco d’azzardo — disse Reich. — Ellery West, il direttore del Reparto Ricreazione, si lamenta che alla Sacramento si gioca troppo. Personalmente me ne infischio.

— Così volete una canzone anti-azzardo?

— Sì, una cosa del genere. Qualcosa che impressioni. Qualcosa di non eccessivamente banale. Che abbia un’azione ritardata, non un effetto immediato. Preferisco che le influenze si esercitino a livello del subconscio.

Duffy annuì, prendendo rapidamente qualche appunto.

— E per favore, che sia un motivo sopportabile. Dovrò sorbirmelo Dio solo sa da quante persone, cantato, fischiettato, mugolato.

— I miei motivi si ascoltano sempre volentieri!

— Sì, ma una volta sola. Comunque, qual è il motivo più persistente che abbiate composto?

— Persistente?

— Come quegli slogan pubblicitari che non riuscite mai a togliervi di mente.

— Oh, li chiamiamo Pepsi.

— Perché?

— Perché dicono che il primo fu scritto secoli fa per le forme primitive di radio e televisione da un tipo che si chiamava Pepsi. Sarà! Io non lo so. Una volta ne scrissi uno. — Duffy trasalì al ricordo. — Non posso sopportare di ripensarci neppure adesso. Mi perseguitò per un anno intero.

— Scherzate.

— Parola d’onore. Era Tira, disse Molla. Lo scrissi per quel Panty sul matematico pazzo. Volevano qualcosa che ne rovinasse il successo, e furono accontentati. La gente si disgustò talmente che dovettero ritirare il Panty. Ci persero una fortuna.

— Fatemelo sentire.

— Non voglio infliggervi questo tormento.

— Su Duffy! Sono curioso.

— Ve ne pentirete.

— Non vi credo.

— E allora va bene, vecchio stupido — disse la ragazza e attirò a sé il pannello multivocale. — Questo vi ripagherà del vostro tiepido bacio. — Fece scorrere delicatamente le dita sul pannello. Nella stanza echeggiò un motivetto di ossessionante, indimenticabile banalità. Era la quintessenza stessa della banalità: Reich non aveva mai udito niente di simile. Qualunque melodia si cercasse di richiamare alla memoria, invariabilmente quel dannato motivetto si sovrapponeva. Poi Duffy cominciò a cantare con vocetta ossessionante:

Otto, amico; sette, amico;

sei, amico; cinque, amico;

quattro, amico; tre, amico;

due, amico. Uno!

Tira, disse Molla,

Molla, disse Tira.

Paura, Tensione, Ansietà

cominciano già.

— Mi sono servita di un trucchetto geniale per comporre questo motivo — disse Duffy continuando a suonare. — Notate la battuta dopo uno! È una semicadenza. Poi ce n’è un’altra dopo già. Così la canzone finisce con una semicadenza e non si può mai smettere di cantarla. La battuta finale vi costringe a ripeterla continuamente in un giro vizioso, così: Paura, Tensione, Ansietà cominciano già. RITORNELLO. Paura, Tensione, Ansietà cominciano già. RITORNELLO. Pau…

— Duffy! — protestò Reich.

— E c’è un’altra cosa — continuò lei dolcemente. — Gli ultimi due versi sono composti da tredici sillabe. Rimarreste sorpreso dell’effetto che hanno sul subcosciente. Contatele. Paura, Tensione, Ansie…

Reich si alzò in piedi tappandosi le orecchie.

— Quanto durerà questa tortura?

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