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— No.

— In Siberia, più a est e a nord di quanto si possa arrivare restando sul continente asiatico. La maggior parte dei miei antenati erano di etnia russa. Ma nessuno in Siberia è totalmente una cosa sola. Io ho antenati che erano Chukchi e Inuit. So che cosa è accaduto ai Piccoli Popoli, i nativi del luogo, per il bene e per il male. L’abbiamo imparato a scuola.

"È passato. Non possiamo cambiare le cose e non possiamo fermare la storia. Possiamo soltanto agire in modo più attento, più meditato, con maggior rispetto e minore avidità." Fece una pausa. "Possiamo solo agire come socialisti."

Riflettei un momento. — Non capisco che cosa abbia a che fare tutto questo con l’essere qui.

— Eravamo a un punto morto — disse Tatiana. — Nessuno voleva abbandonarvi sul pianeta. Ma sulla nave ci sono parecchi individui che vengono dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Ricordano le storie che hanno imparato a scuola. La compagna Ivanova viene dalla Siberia. Io dal Kazakhstan. Dalla Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Kazakha. So quello che è successo alla nostra ottima terra da pascolo quando sono arrivati i russi, i russi sovietici.

— Che cosa? — chiesi.

— Completamente arata. Sparita. Dovevamo far pascolare le nostre mandrie nelle terre aride, il deserto, o sulle montagne. — La donna sollevò il binocolo. — Compagna, potresti portarci più vicino alla riva?

— Sì. — La Ivanova girò la ruota del timone. L’imbarcazione virò verso la palude piovosa: canne grigie, chine sotto il peso dell’acqua. Si muovevano dolcemente al vento. — Come ha detto Tatiana, eravamo a un punto morto. Stavamo seduti a scambiarci occhiate astiose. Finché i cinesi non hanno detto che non era un problema nostro.

Guardai la Ivanova, sorpresa.

— Hanno detto che il pianeta non appartiene a noi. E non è la nostra storia che abbiamo paura di cambiare. Hanno suggerito… il signor Fang ha suggerito… di consultare i nativi. Di chiedere loro se vogliono averci qui. — La Ivanova fece una pausa. — È per questo che andremo al villaggio.

— Un solo villaggio dovrà decidere questo problema per l’intero pianeta?

— No. Naturalmente no. Andremo nel villaggio più vicino a spiegare chi siamo e perché siamo giunti nel loro territorio. A chiedere se possiamo restare. Se diranno di no, ci scuseremo e ce ne andremo. Se diranno di sì…

Tatiana intervenne: — C’è qualcosa sulla riva.

La barca rallentò. Scorsi la cosa. Giaceva su un banco di fango, interamente fuori dall’acqua. Un oggetto lungo, sottile e scuro. Una lucertola?

Tatiana disse: — Una canoa.

— Che cosa? — Tesi la mano e lei mi diede il binocolo. Aveva ragione. — Ci siamo ribaltati in prossimità della riva orientale. Com’è possibile che sia finita qui?

— Di certo non può averla portata la corrente — disse la Ivanova.

La barca rallentò ancora, avvicinandosi alla riva. La Ivanova parlò in russo. Tatiana entrò nella cabina. L’imbarcazione si fermò. Eddie uscì sul ponte, seguito da Agopian.

— Quanto è profondo? — s’informò Eddie.

La Ivanova diede un’occhiata agli strumenti che aveva davanti. — Un po’ più di un metro.

Eddie scavalcò la fiancata e si diresse sguazzando verso la riva.

— Compagna? — chiese Agopian.

— Resta qui. A meno che tu non voglia andare.

— Certo che voglio. È chiaramente un manufatto, costruito da alieni. Mi piacerebbe toccarlo. Sono già bagnato.

Lei rise. Agopian seguì Eddie. Sollevai di nuovo il binocolo. Eddie era accanto alla canoa. Ora riuscivo a valutarne le dimensioni. Era troppo piccola. Eddie toccò il legno. Si avvicinò anche Agopian, le spalle curve contro la pioggia, i pantaloni inzuppati fino alla vita. Parlarono. Se fossero stati dei nativi, li avrei capiti, ma i gesti che facevano non avevano alcun significato chiaro. Agopian puntò il dito. Eddie scosse il capo. Si guardarono attorno. Agopian tirò fuori una macchina fotografica. Scattò fotografie della canoa. Eddie tornò verso di noi.

— Non è la nostra canoa — dissi alla Ivanova.

— No?

— Troppo piccola. E c’è qualcos’altro. La forma della prua.

Eddie risalì a bordo. — È vecchia. Il legno è marcio. Ci sono piante che crescono all’interno. — Lanciò un’occhiata ad Agopian. L’uomo basso stava ancora facendo fotografie. — Non ci sono orme sulla riva. Direi che è stata trascinata dalla corrente, forse in primavera. Questo fiume deve straripare. Non credo che fosse nuova neppure allora. Ha l’aria di essere in acqua da anni.

— Non ci sono molte probabilità di trovarli, vero? — dissi.

— No.

— Dovrebbero trovarsi sulla riva orientale del fiume — disse la Ivanova. — Vicino al letto principale, come Derek e te. — Esitò, poi gridò: — Compagno! Sobbalzai.

Eddie sorrise. — Vedi com’è sulla nave. Ha questo dannato modo di urlare.

— Non ho quasi mai gridato con te — ribatté la Ivanova.

Agopian tornò alla barca. Eddie lo aiutò a salire a bordo.

— Non è un gran che da guardare — disse. — Ma è davvero un manufatto. — Avvertii uno strano tono nella sua voce. — Non sono frutto della nostra immaginazione.

— Chi? — chiese Eddie.

— Gli alieni. I nativi. Altre persone. Vita consapevole. — Rise. — E io sono qui. — Si guardò i pantaloni. — Dovrò cambiarmi i vestiti.

Eddie annuì. La barca incominciò a muoversi, tornando verso l’acqua più profonda. Gli uomini entrarono nella cabina.

Io restai accanto alla Ivanova. L’imbarcazione riprese velocità. La pioggia s’intensificò ancora di più e le isole e la riva divennero solo ombre indistinte. L’acqua scorreva lungo il parabrezza e batteva sulla parte del ponte non riparata alle nostre spalle. Il vento la spingeva sotto la tettoia. Mi raggiunse. Rabbrividii.

— Va’ dentro, compagna. Non so che malattie sia possibile prendersi su questo pianeta ma, quali che siano, te le stai andando a cercare. Sei stremata. Non mangi in modo adeguato da giorni e adesso stai qui a prenderti freddo e umidità. Da’ il binocolo a Tatiana. Non credo che riuscirà a vedere alcunché, ma non si rinuncia quando ci sono in gioco delle vite.

Andai dentro. Derek se ne stava disteso in una poltroncina, le gambe allungate, le spalle contro lo schienale. Non era il modo in cui si sedeva di solito. Aveva l’aria stremata. Gli altri sedevano attorno a lui, bevendo tè e parlando sommessamente. Le luci mandavano una tenue luce gialla.

Tatiana alzò lo sguardo. — Lei mi vuole?

— Sì. — Le porsi il binocolo. Uscì. Mi sedetti su un divano, sentendomi disorientata. Forse era la luce. Così tenue e uniforme. Tutt’altra cosa della luce del fuoco. Mi massaggiai il collo. Gli altri mi lanciarono un’occhiata, poi continuarono la loro conversazione. Aveva qualcosa a che fare con un concerto sulla nave. Un compositore che usava elementi di musica indigena tratti dai nostri rapporti. Eddie pensava che il lavoro fosse superficiale, Agopian lo riteneva interessante. Derek faceva domande di quando in quando.

Mi distesi e chiusi gli occhi. Qualcuno mi mise addosso una coperta.

Derek disse: — Siamo quasi al campo.

Mi sollevai a sedere. Le luci erano spente. La cabina era deserta, fatta eccezione per noi due.

— Ha smesso di piovere — disse. — Andiamo fuori.

Mi alzai, stiracchiandomi, e lo seguii sul ponte. Tatiana era al timone. Gli altri tre se ne stavano appoggiati al parapetto di poppa. I lunghi capelli di Eddie ondeggiavano al vento. Alle loro spalle c’era la valle del fiume che la foresta faceva apparire scura. Sopra di loro il cielo era grigio ferro. A ovest, sulla mia destra, si stava rasserenando. Raggi di sole penetravano fra le nuvole e raggiungevano il fiume. No. Il lago. Si estendeva attorno a noi, ampio e di un grigio argento. Gli uccelli si libravano in volo sopra l’acqua increspata. Guardai alla mia sinistra. Distinguevo a stento la riva orientale. — È più grande di quanto mi aspettassi.

— Probabilmente stavi pensando a qualcosa sulla Terra — disse Eddie. — L’ho notato nei tuoi rapporti, continuavi a cercare di fare di questo mondo una seconda Terra. Non solo tu. Tutti i ricercatori sul campo. Tutto veniva paragonato a qualcosa sul nostro pianeta. La maggior parte dei paragoni risulteranno falsi o errati. Questo posto è alieno. Non è il nostro mondo.

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