— Temo, dottoressa Clemente-Rice, che dopotutto non potrete far visita alla prigioniera.
La voce di Carmela restò serena, ma d’acciaio. — Si sbaglia, signor Castner. Io e il signor Arlen abbiamo un permesso del Procuratore Generale in persona per vedere la signorina Sharifi. Ha ricevuto notifica sia via terminale sia via cartacea. Ho con me le copie della pratica.
— Ho già ricevuto la notifica dal Tribunale, dottoressa.
L’espressione di Carmela non mutò. Restò in attesa. Il direttore del carcere si appoggiò allo schienale della sedia antica allacciandosi le mani dietro la testa con espressione ostile e divertita. Anche lui aspettò.
Carmela era più brava.
Alla fine lui ripeté: — Nessuno di voi due può vedere la prigioniera, a dispetto di quello che dice il Tribunale.
Carmela non disse nulla.
Lentamente l’espressione divertita di lui svanì. Lei non aveva intenzione né di chiedere né di pregare. — Non potete vedere la prigioniera perché la prigioniera non vuole vedervi.
Mi lasciai sfuggire: — Per niente?
— Per niente, signor Arlen. Si rifiuta di vedere entrambi. — Si appoggiò ulteriormente indietro sulla sedia, slacciando le mani, i suoi occhi azzurri piccoli nel bel volto.
Forse me lo sarei dovuto aspettare. Ma non era stato così. Appoggiai i palmi delle mani sulla sua scrivania.
— Le dica… le dica solo che io… le dica…
— Drew — disse dolcemente Carmela.
Cercai di ricompormi. Odiavo che quel bastardo sogghignante mi avesse sentito balbettare. Arrogante cazzone Mulo. In quel momento lo odiavo quanto avevo odiato Jimmy Hubbley, quanto avevo odiato Peg, quella povera ignorante zoticona senza speranza che si sforzava pateticamente di stare al passo con Jimmy Hubbley. "Non ci posso fare niente se so di più e penso meglio di te, Drew! Non posso fare a meno di essere quella che sono!"
Feci ruotare repentinamente la carrozzella e mi mossi verso la porta. Un istante dopo sentii che Carmela mi stava seguendo. La voce del direttore Castner bloccò entrambi.
— La signorina Sharifi ha lasciato un pacchetto per lei, signor Arlen.
Un pacchetto. Una lettera. Una possibilità di rispondere, di spiegarle che cosa avevo fatto e perché lo avevo fatto.
Non volevo aprire il pacchetto davanti a Castner. Avrei però potuto aver bisogno di prendere accordi per rispondere alla lettera lì, subito, e la lettera avrebbe potuto dare qualche spunto che… A Carmela erano occorse tre settimane per farci arrivare fin lì. Un favore personale del Procuratore Generale. Inoltre, Castner aveva indubbiamente già letto quello che Miranda aveva da dirmi. Che diavolo, intere squadre di esperti informatici della sicurezza avevano sicuramente analizzato le sue parole alla ricerca di un codice, di un nano-meccanismo nascosto, di un significato simbolico. Voltai le spalle a Castner e aprii la busta leggermente imbottita.
E se avesse scritto parole troppo difficili per me da comprendere…
Non c’erano però parole. Soltanto l’anello che le avevo regalato dodici anni prima, una sottile fascetta d’oro incastonata di rubini. Lo fissai finché l’anello non si sfuocò e solo la sua immagine restò a riempirmi la mente vuota.
— C’è una risposta? — chiese Castner con voce melliflua. Aveva sentito l’odore del sangue. — No — dissi io. — Nessuna risposta. — Continuai a fissare l’anello.
"Avevi detto che mi amavi!"
"Non più."
Carmela mi dava le spalle, fornendomi l’illusione di un po’ di privacy. Castner mi fissava, sorridendo debolmente.
Mi infilai l’anello in tasca. Lasciammo la prigione federale. Adesso non avevo nessuna forma nella mente, nulla. La grata scura che si era dissolta nel bunker sotterraneo di Jimmy Hubbley per mostrarmi il mio stesso serrato isolamento, non era mai più riapparsa. Non ero più soggiogato da Huevos Verdes. Miranda però era sparita. Leisha era sparita. Carmela era lì, ma non la sentivo nella mia mente, non riuscivo nemmeno realmente a vederla.
Ero solo.
Passammo nuovamente attraverso il sistema di sicurezza e uscimmo dalla prigione nella fredda e scintillante luce solare di Washington.
18
Diana Covington — Albany
Strizzai le palpebre e chiusi gli occhi davanti al bagliore di una parete che appariva eccessivamente bianca. Per un istante non riuscii a ricordare dove fossi o chi fossi. Questa informazione poi mi tornò in mente. Mi sedetti, troppo velocemente. Il sangue abbandonò la testa e la camera prese a turbinare.
— Si sente bene?
Una donna di mezz’età dal volto piacevole, con un corpo grassoccio e profonde rughe che andavano dal naso alla bocca. Modificata geneticamente al minimo, sempre che lo fosse, ma non un Vivo. Indossava l’uniforme della sicurezza. Era armata.
Chiesi: — Che giorno è?
— Il dieci dicembre. Lei è qui da trentaquattro giorni. — Parlò in direzione della parete. — Dottor Hewitt, la signorina Covington è di nuovo qui.
Di nuovo qui. Dov’ero stata? Non importava, lo sapevo. Mi trovai seduta su un letto d’ospedale bianco, in una stanza d’ospedale bianca stipata di apparecchiature mediche e di sorveglianza. Sotto il camiciotto usa e getta bianco le mie braccia, le gambe e l’addome erano ricoperti da piccole protuberanze chiare di sangue raggrumato. Qualcuno aveva preso un bel po’ di campioni.
— Lizzie? Billy? I Vivi che sono arrivati qui con me, erano in tre…
— Il dottor Hewitt sarà qui in un minuto.
— Lizzie, la bambinetta, era malata, è forse…
— Il dottor Hewitt sarà qui in un minuto.
Ci fu, insieme a Kenneth Emile Koehler. La testa mi si schiarì immediatamente.
— D’accordo, dottor Hewitt. Che cosa mi hanno fatto quelli di Huevos Verdes?
Sembravano aspettarsi la mia franchezza. Perché no? Avevamo passato trentaquattro giorni in intima comunione, senza che io potessi ricordare nulla. Egli disse: — Le hanno iniettato svariati e differenti tipi di nano-meccanismi. Alcuni sono costruiti sulla base di organismi di bioingegneria, primariamente virus. Alcuni sembrano essere esclusivamente macchinari, creati un atomo alla volta, che hanno trovato alloggio nelle sue cellule. La maggior parte di essi sembra autoreplicante. Alcuni, supponiamo, hanno un meccanismo a orologeria che ne programma la replicazione. Lì stiamo studiando tutti, cercando di determinare l’esatta natura di…
— Che cosa "fanno" questi macchinari? Che cosa è stato cambiato nel mio corpo?
— Non lo sappiamo ancora.
— Non lo sapete? — Notai io stessa quanto fosse stridula la mia voce. Non me ne importò.
— Non completamente.
— Lizzie Francy? Billy Washington? Lizzie era malata…
— Una parte dell’iniezione che vi è stata fatta conteneva il meccanismo del Depuratore Cellulare, come lei già sa. Ma il resto… — Una strana espressione passò sul volto di Hewitt, risentita e struggente. Non avevo alcuna intenzione di dare retta alla sua espressione. Ero presa da una specie di frenesia improvvisa, del tipo che ti fa pensare che non potrai sopravvivere entro i successivi cinque minuti se non conoscerai informazioni che sai già che rifiuterai nei cinque minuti successivi a essi.
— Dottore, cosa pensa che farà questa fottuta iniezione?
Il suo volto si contrasse. — Non lo sappiamo.
— Ma dovete sapere "qualcosa"…
Un robot arrivò sulle rotelle attraverso la porta. Aveva la forma di un tavolino, con una inutile griglia che suggeriva un volto sorridente. Sulla sua superficie si trovava un vassoio coperto. — Pranzo per la Stanza 612 — disse gradevolmente il robot. Sentii odore di riso, pollo, roba vera, non soia sintetica, cibi che non avevo gustato da mesi. Mi venne improvvisamente una fame da lupo.
Tutti mi guardarono mangiare. Mi guardarono con una intensità particolare. Non me ne importava niente. Il sugo del pollo mi gocciolava lungo il mento, i grani di riso mi scivolavano dalle labbra. I denti erano stuzzicati dalla gradevole dolcezza del lacerare carne. Piselli freschi e dolci, salsa di mele speziata. Ero famelica, consumata da ciò che stavo consumando. Nessuna quantità poteva essere sufficiente.