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Non lo dissi a voce alta.

Terry Mwakambe balzò giù dal davanzale. Non aveva detto una sola parola per tutto il tempo in cui ero stato nella stanza. Le sue stringhe di pensiero, diceva Miri, consistevano quasi interamente di equazioni. A quel punto però disse: — Pranzo?

Mi misi a ridere. Non ne potei fare a meno. Pranzo! L’unico legame fra Terry Mwakambe e Drew Arlen!

4

Diana Covington — Kansas

Una notte, in un’altra vita, Eugene che era venuto prima di Rex e dopo Claude, mi chiese a che cosa mi facevano pensare gli Stati Uniti. Era il genere di domanda che Gene preferiva: invitante alla grandiosità metaforica che, a sua volta, invitava al suo disprezzo. Gli risposi che gli Stati Uniti mi erano sempre apparsi come un potente bestione innocente, sontuosamente bello e con la capacità cranica di un piccolo cerbiatto. Guardate come distende gli agili muscoli alla luce del sole. Guardate come salta in alto. Guardate come corre con estrema grazia dritto filato sul percorso del treno in arrivo. Questa risposta aveva avuto la virtù di essere così pomposamente grandiosa che obbiettarvi sullo stesso piano sarebbe stato superfluo. Non era importante che la risposta fosse stata anche vera.

Certo che dalla "mia" ferrovia a gravità riuscivo a vedere abbastanza della carcassa sontuosa e mutilata. Eravamo giunti alle Montagne Rocciose a un quarto di velocità, così che i passeggeri Vivi potessero goderne la spettacolare vista. Maestose montagne di porpora e tutto il resto. Nessun altro guardò fuori dal finestrino. Io ci rimasi incollata, gustando tutta l’asinina superiorità della genuina meraviglia.

A Garden City, nel Kansas, cambiai per salire su un locale, sfrecciando attraverso la rigogliosa campagna a 350 chilometri orari, strisciando attraverso schifosissimi paesi di Vivi a zero all’ora. — Perché non "volare" semplicemente a Washington? — mi aveva chiesto Colin Kowalski, incredulo. — Dopo tutto non sei tenuta a far finta di essere una Viva. — Gli avevo risposto di voler vedere i paesi dei Vivi di cui stavo difendendo l’integrità contro la potenziale corruzione della genetica artificiale. Non aveva gradito la mia risposta più di quanto non avesse fatto Gene.

Be’, adesso li stavo vedendo. La carcassa mutilata.

Ogni paese appariva uguale. Le strade si aprivano a ventaglio dalla stazione della ferrovia a gravità. Case e condomini, alcuni di pura pietra spugnosa e alcuni con la pietra spugnosa aggiunta su edifici più antichi fatti di mattoni cotti o perfino di legno. I colori della pietra spugnosa erano appariscenti: rosa, arancione, cobalto e un popolarissimo verde. L’ozio aristocratico dei Vivi non era accompagnato da un gusto altrettanto aristocratico.

Ogni paese vantava un caffè comunale della dimensione dell’hangar di un aereo, un deposito per i beni di consumo, svariati edifici di logge, un bagno pubblico, un albergo, campi sportivi, una scuola dall’aspetto deserto. Ogni cosa era ricoperta da olo-insegne. Un po’ fuori del paese, appena visibile dalla ferrovia a gravità, c’erano l’impianto a energia-Y e le robo-industrie protette, che facevano funzionare il tutto. E, ovviamente, la pista degli scooter, inevitabile come la morte.

In un qualche punto del Kansas era salita sul treno una famiglia e si era catapultata sui sedili davanti a me. Papà, mamma, tre piccoli Vivi, due dal naso moccioso, tutti con un gran bisogno di dieta e di ginnastica. Rotoli di grasso ballonzolavano sotto la sgargiante tuta gialla di mamma Viva. Il suo sguardo mi sfiorò, proseguì e di colpo mi puntò come quello di un radar.

— Salve — dissi io.

Lei corrugò la fronte e dette una gomitatina al marito. Egli mi guardò, ma non corrugò la fronte. I cuccioli mi fissarono in silenzio, il maschietto, aveva circa dodici anni, con la stessa espressione di suo padre.

Colin mi aveva ammonito di non cercare nemmeno di passare per una Viva: aveva detto che non c’era alcuna possibilità che io potessi ingannare gli Insonni. Io gli avevo risposto che non volevo ingannare gli Insonni: mi volevo solamente mischiare alla fauna locale. Mi aveva detto che non ci sarei riuscita. Apparentemente aveva avuto ragione. Mamma Viva lanciò un’occhiata alle mie gambe lunghe modificate geneticamente, al mio volto studiato, al collo da Anna Bolena che era costato a mio padre un piccolo fondo fiduciario, e seppe. La mia tuta verde veleno, i gioielli di lattine da bibita (molto popolari, li si faceva da soli) e le lenti a contatto color cacca non fecero per lei la benché minima differenza. Papà Figlio non ne erano così sicuri ma, in fondo, non gliene importava molto.

— Mi chiamo Darla Jones — dissi allegramente. Avevo una tasca di sicurezza piena di vari tesserini con vari nomi, alcuni forniti dall’ECGS, altri di cui loro non sapevano nulla. È un errore lasciare che l’Ente ti fornisca completamente la copertura. Potrebbe arrivare il momento in cui ti vuoi nascondere da loro. Tutte le mie identità erano registrate nei data-base federali e sembravano avere un lungo passato, grazie a un amico di talento del quale l’ECGS non conosceva l’esistenza. — Me ne vado a Washington, io.

— Arnie Shaw — disse eccitato l’uomo. — Il treno si è già rotto?

— Nooo — risposi. — Però è probabile che lo farà.

— Che ci si può fare?

— Niente.

— Mantiene vivo l’interesse.

— Arnie — disse in modo tagliente mamma Viva interrompendo questo inconsistente excursus conversazionale — andiamo laggiù, noi. Ci sono altri sedili. — Mi lanciò un’occhiata che avrebbe incenerito la sintoplastica.

— Ma anche qui ci sono un sacco di posti, Dee.

— Arnie!

— Bye — dissi io. Si allontanarono mentre la donna bofonchiava sotto voce. Stronza. Avrei dovuto lasciare che i Super-Insonni trasformassero i suoi discendenti in cani da guardia a quattro arti privi di coda. O in qualsiasi altra cosa avessero in mente. Appoggiai la testa contro lo schienale e chiusi gli occhi. Rallentammo nell’attraversare un altro paese di Vivi.

Non appena lo lasciammo, la piccola Shaw tornò. Una bambinetta di circa cinque anni, gattonava lungo il corridoio come un micino. Aveva un visino impudente e lunghi capelli scuri e sporchi.

— Hai un bel braccialetto, tu. — Guardò languidamente l’atrocità di latta che avevo al polso, un ammasso intrecciato di una specie di lega leggera duttile come la cera calda. Un qualche votante infatuato lo aveva inviato a David, insieme agli orecchini, quando lui era candidato come senatore di Stato. Li aveva tenuti per scherzo.

Mi feci scivolare via il braccialetto dal polso. — Lo vuoi, tu?

— Davvero? — Aveva il volto radioso. Mi strappò il braccialetto dalle dita e si precipitò nuovamente lungo il corridoio, con la coda della camicia azzurra che si agitava. Io sogghignai. Un vero peccato che i micini crescendo diventavano inevitabilmente gatti.

Un minuto dopo mamma Viva si profilò all’orizzonte. — Tieniti il tuo braccialetto, tu. Desdemona, lei, ha i suoi gioielli!

Desdemona. Ma dove sentivano quei nomi? Shakespeare non viene recitato sulle piste degli scooter.

La donna mi guardò con un’espressione durissima. — Ascoltami bene, tu te ne devi stare con quelli del tuo genere e noi con quelli del nostro. Meglio così. Hai capito, tu?

— Sì, signora — le dissi e mi tolsi le lenti. I miei occhi sono di un intenso viola modificato geneticamente. La fissai con calma, le mani ripiegate in grembo.

Lei se ne andò camminando come una papera, bofonchiando. Colsi le sue parole: — Quella gente…

— Se scoprirò di non poter passare per una Viva — avevo detto a Colin — passerò per un Mulo semi-impazzito che cerca di passare per Vivo. Non sarei certo il primo Mulo che vuole tornare alla natura. Hai presente il tipo della classe lavoratrice che cerca pateticamente di passare per un aristocratico. Nascondersi in bella vista.

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