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Per la terza volta, la grata color porpora scomparve. Quindi scomparve anche tutto il resto.

Lentamente, molto lentamente, mi resi conto che gli oggetti nella stanza avevano forme proprie, forme che si trovavano all’esterno della mia testa. Erano solide, nitide e reali. Il mio corpo aveva forme: gambe rannicchiate sotto di me, la testa appoggiata sopra alla sedia a rotelle di metallo, le palle che gridavano dal dolore. Le mie mani avevano una forma, erano serrate, bloccate attorno al collo di Peg. Il volto di lei era paonazzo, la lingua le spuntava, gonfia, fra le labbra. Lei era morta.

Provai dolore nell’aprire le mani.

La guardai. Non avevo mai ucciso nessuno prima di allora. La guardai centimetro per centimetro. Il messaggio scarabocchiato sul pizzo era serrato fra le sue dita irrigidite.

Raddrizzai la sedia a rotelle il più velocemente possibile, infilai nuovamente l’imbottitura sul bracciolo aguzzo e issai il mio corpo dolorante su di essa. Peg aveva una pistola nella tuta, la presi. Non sapevo quanto fosse sofisticato il programma di sorveglianza della camera. A Peg era probabilmente concesso di entrare quando voleva.

Aprii la porta e mi spinsi sul corridoio. Le ruote lasciarono una sottile striscia di sangue sul pavimento perfetto, costruito con la nano-tecnologia. Non potevo farci assolutamente nulla.

Avevo osservato, durante i giri attorno al bunker, chi entrava e usciva e da quali porte. Avevo ascoltato, cercando di immaginare chi fossero gli ufficiali più fidati, chi sembrava sveglio a sufficienza per lavorare con i computer. Avevo cercato di indovinare oltre quali porte vi fossero dei terminali.

Nessuno era venuto a cercarmi. Erano passati cinque minuti da quando avevo lasciato la mia stanza. Otto. Dieci. Non era suonato alcun allarme. C’era qualcosa che non andava.

Arrivai a una porta dove speravo ci fosse un terminale: era ovviamente bloccata. Pronunciai i trucchetti di sovrapposizione che Jonathan e Miranda mi avevano insegnato, i giochetti che io non capivo, e la serratura si illuminò. Aprii la porta.

Si trattava di una stanza-magazzino, piena di moltissimi involucri metallici, ammucchiati fino al soffitto. Nessuno degli involucri era etichettato. Non c’erano terminali.

Lungo il corridoio sentii il rumore di passi in corsa. Chiusi velocemente la porta dall’interno. Il rumore di passi cessò: la camera era insonorizzata. Aprii nuovamente la porta di qualche centimetro. Adesso c’era della gente che gridava più giù, lungo il corridoio.

— Maledizione, dove sta quello, lui? Maledizione e stramaledizione! — Campbell, che non avevo mai nemmeno sentito parlare. Stavano cercando me. Il programma di sorveglianza però avrebbe dovuto mostrare chiaramente dove mi trovavo…

Un’altra voce, di una donna, bassa e letale, disse: — Prova nella stanza di Abby.

— Abby! Cazzo, c’è sotto lei! Lei e Joncey! Hanno già la stanza coi terminali…

Le voci scomparvero. Chiusi la porta. Le forme nella mia mente cominciarono improvvisamente a gonfiarsi, escludendo i pensieri. Le repressi. Allora c’eravamo. Era iniziato. Non stavano cercando me, stavano cercando Hubbley. La rivoluzione contro la rivoluzione era cominciata.

Rimasi seduto, pensando il più velocemente possibile. Leisha. Se ci fosse stata Leisha…

Leisha non era una cospiratrice. Non era un’assassina. Aveva avuto fede nell’eventuale risultato di un qualsiasi scontro fra bene e male, aveva avuto fede nelle somiglianze basilari fra gli esseri umani, aveva avuto fede nella loro abilità di concludere compromessi e vivere insieme. Gli umani potevano avere bisogno di controlli ed equilibri, ma non avevano bisogno di forza imposta, né di isolazionismo difensivo. Leisha, a differenza di Miranda, credeva nella regola della legge. Ecco perché era morta.

Aprii la porta completamente e spinsi la mia sedia a rotelle, deformata come era, nel corridoio. Dal bracciolo cadde l’imbottitura. Bloccai il corridoio, a pistola spianata, e aspettai che qualcuno girasse l’angolo. Alla fine qualcuno lo fece. Era Joncey. Gli sparai all’inguine.

Egli gridò e cadde contro la parete. Uscì molto più sangue di quanto non fosse accaduto con Peg. Portai rapidamente la carrozzella fino a lui e me lo issai in grembo, bloccandogli i polsi con una delle mie mani potenziate e tenendo la pistola con l’altra. Un altro uomo voltò l’angolo, con Abigail che gli correva dietro ondeggiando. Abigail emise un suono gemente più simile al vento che non a una voce umana.

— Ooohhhhhh…

— Non avvicinatevi ulteriormente o lo uccido. Sopravviverà, Abby, se verrà sottoposto a cure mediche, sempre che lo lasci andare in fretta. Ma se non farete ciò che vi chiederò, lo ucciderò. Anche se tirerete fuori una pistola per spararmi io sparerò prima a lui.

L’altro uomo disse: — Ammazza quel bastardo monco, tu!

— No — disse Abby, Aveva riacquistato il controllo di sé immediatamente: il suo sguardo dardeggiava come quello dei conigli in trappola, ma aveva il controllo di sé. Era un capo naturale migliore di molti altri, forse migliore di Hubbley. Io però tenevo Joncey fra le braccia e lei non era abbastanza capo per questo genere di sacrificio.

— Che cosa vuoi, Arlen? — Si passò la lingua sulle labbra, guardando il sangue scorrere fuori dall’inguine di Joncey. Era svenuto e io lo feci scivolare leggermente per liberare l’altra mano.

— Ve ne state andando, vero? Insieme a quelli che avete lasciato in vita. Avete ammazzato Hubbley?

Lei annuì. Il suo sguardo non si spostò mai da Joncey. Lui era ancora sulle mie ginocchia. Le quasi dimenticate forme delle preghiere dell’infanzia mi sferzarono la mente: "Ti prego non lasciare che muoia, adesso". Vidi le stesse forme negli occhi di Abigail.

— Lasciami qui — dissi. — Tutto qui. Qui e vivo. Qualcuno alla fine arriverà.

— Chiamerà aiuto, lui — disse l’altro uomo.

— Chiudi il becco — ribatté Abby. — Sai che nessuno può usare quei terminali se non Hubbley, Carlos e O’Dealian e sono tutti morti, loro.

— Ma, Abby…

— Chiudi il becco, tu! — Stava pensando freneticamente. Non riuscivo più a sentire il cuore di Joncey.

Una donna sfrecciò lungo il corridoio. — Abby, che è successo? Il sottomarino al largo della costa… — Si bloccò di scatto.

Il "sottomarino". Improvvisamente capii come era riuscita la rivoluzione clandestina a eludere per così tanto tempo l’ECGS. Un sottomarino significava aiuto di tipo militare. Erano coinvolti enti all’interno del governo, quanto meno alcune persone all’interno degli enti. PROPRIETÀ DEL GOVERNO STATUNITENSE. SEGRETO. PERICOLO.

Per un interminabile momento pensai di essere morto.

— D’accordo! — disse Abby. — Dammelo e poi chiuditi dentro quel magazzino, tu!

— Non avvicinarti — dissi. Indietreggiai nella camera con gli involucri, portando ancora Joncey. All’ultimo minuto lo lasciai cadere e chiusi sbattendo la porta. Poteva essere serrata dall’interno, ma non avevo dubbi sul fatto che lei fosse in grado di sovrapporsi. Contai sull’urgenza nel tono della seconda donna, sul panico: "Abby, il sottomarino al largo della costa!".

Restai fermo, col cuore che batteva forte. Le forme nella mia mente erano rosse, nere e spinose, dolorose come cactus.

Non successe nulla.

I minuti si trascinarono.

Alla fine una piccola sezione della parete accanto a me si illuminò. Era un olo-schermo e io non me ne ero nemmeno reso conto. Un terminale dalle prestazioni limitate. Il volto di Abby lo riempiva, macchiato di sangue, distorto dall’odio.

— Ascolta, Arlen, tu. Tu morirai lì dentro, sotto terra. Ho sigillato tutto. I terminali sono bloccati, loro, tutti quanti. Nel giro di un’altra ora il supporto vitale si spegnerà automaticamente. Potrei ucciderti adesso, io, ma voglio che prima tu ci puoi pensare. Mi senti? Sei morto, MORTO. — A ogni parola la sua voce si alzò fino a trasformarsi in un grido. Si passò una mano sulla fronte da una parte all’altra, i capelli scompigliati e stopposi, macchiati di sangue. Capii che Joncey era morto.

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