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— Ora, signor Arlen, signore, sono veramente felice che si è interessato tanto alla nostra rivoluzione da volerla scrivere. Ma, naturalmente, voglio controllare quello che ha scritto, per precisione. Lo capisce, figliolo?

— Significa che pensa che qualcuno lo vedrà sul serio? — dissi, consegnandogli le carte. Stuzzicarlo, però, non sortì alcun effetto. Il suo volto, sempre ossuto, appariva tirato e desolato. La pelle attorno agli occhi si increspava in spesse rughe. Dette a malapena un’occhiata alla mia "isteria".

— Che diavolo, è bella, figliolo. Solo che c’è bisogno di più sul colonnello Marion. L’ispirazione è il cuore dell’azione, diciamo sempre.

— Non ho mai sentito nessuno di voi dirlo.

— Mmmh — commentò lui, senza avermi effettivamente ascoltato. Si guardò distrattamente attorno nella stanza. Abigail stava ancora ridendo in modo squillante con i suoi amici, cucendo il perenne abito da sposa: ci stava sopra da oltre tre ore. Ormai era incinta di sette mesi e il pizzo bianco le si appoggiava sul rigonfiamento del ventre. Joncey, il dottore e Campbell erano spariti. Peg, sveglia accanto a me, fissava Hubbley come fosse il sole. Stava succedendo qualcosa, qualcosa che non capivo.

Le forme nella mia mente erano serrate e dure, chiuse come la grata scura. Stavo esaurendo il tempo.

Serrando le mani sui braccioli della sedia a rotelle, sollevai il busto di pochi centimetri dal sedile. Spostai quindi il peso sulla mano sinistra finché la sedia si ribaltò. Caddi addosso a Peg che, istantaneamente mi afferrò la gola, stringendo. Lottai con me stesso per non reagire. Ogni fibra delle mie braccia gridava per mollarle un cazzotto, ma rimasi immobile, con gli occhi sbarrati, soffocando a morte. La stanza ondeggiò, si offuscò. Passò un’eternità prima che Jimmy Hubbley me la togliesse di dosso.

— Forza, Peg, lascia andare, quest’uomo non sta lottando, è soltanto caduto. Peg! Lascialo!

Lei lo fece, all’istante. L’aria mi riempì di nuovo i polmoni, bruciante e dolorosa come acido. Ansimai e rantolai.

Hubbley stava bloccando Peg anche se lei lo superava in altezza di venticinque centimetri ed era indubbiamente più forte di lui. Egli le tenne un braccio attorno alla vita. Con l’altra mano rigirò la sedia. Si erano radunati molti spettatori.

— Forza, ragazzi, non è successo niente. La sedia del signor Arlen si è ribaltata, vedete come è piegata questa cosa di metallo qui sotto? Calmati adesso, Peg. Caspita, non è nemmeno armato. Si è fatto male signor Arlen, signore?

— N-n-no.

— Cavoli, queste cose succedono. Starrett, rimetti il signor Arlen su questa sedia qui. Dov’è Bobby? Eccoti. Bobby questo è il tuo dipartimento, raddrizza questo metallo così che la sedia a rotelle non gli si ribalti un’altra volta. È decisamente pericoloso. Adesso, è quasi ora di spegnere le luci, quindi andate tutti nei vostri alloggi.

Venni sollevato su una sedia della mensa. Bobby tirò fuori un attrezzo elettrico dalla tasca e raddrizzò il montante in metallo, posto sotto la sedia, in quindici secondi. Mancandomi un attrezzo elettrico mi era occorsa mezz’ora e tutta la forza che avevo in corpo per piegarlo, quel pomeriggio.

Hubbley tolse il braccio dalla vita di Peg, che rabbrividì. L’uomo lasciò la stanza. Recuperai la mia "isteria" e lasciai che Peg spingesse la carrozzella fino in camera da letto e mi bloccasse dentro. Era brusca, arrabbiata con se stessa per avere esagerato nella reazione e si stava chiedendo se qualcun altro si fosse accorto quanto disperatamente aveva protetto Jimmy Hubbley. Non sapeva davvero che tutti gli altri si erano accorti e la prendevano in giro per la sua passione senza speranza. Povera Peg. Stupida Peg. Stavo contando sulla sua stupidità.

Arrivato in camera raggomitolai la coperta sul letto, cercando di far sembrare che mi ci trovassi sotto. Non fu facile: la coperta era sottile. Lasciai la sedia a rotelle vuota in modo che balzasse all’occhio, sulla mia destra, visibile non appena la porta si fosse aperta anche parzialmente. Mi posizionai proprio dietro la porta, accovacciato contro la parete, con le gambe inutilizzabili rannicchiate sotto di me.

Quanto sarebbe occorso a Peg per spogliarsi? Si controllava sempre le tasche? Certo che sì. Era una professionista. Una professionista stupida, però. E malata di passione.

Stupida e malata abbastanza? Se no, ero morto come Leisha.

Ero seduto più o meno nella stessa posizione in cui Leisha era morta. Leisha però non aveva mai saputo che cosa l’avesse colpita. Io sì. Le forme nella mia mente erano tese e veloci, squali argentei che giravano attorno alla grata verde e chiusa.

L’annotazione nella tasca di Peg era scritta con la stessa matita della mia "isteria", ma non su spessa carta da pacco chiara. Era scritta su un ritaglio di pizzo dell’abito da sposa di Abigail, un rombo lasciato-molto-distrattamente lungo un corridoio, un rombo con meno buchi di pizzo del solito e quindi con lo spazio per scribacchiare, utilizzando la grafia più differente possibile dalla mia "isteria" che ero riuscito a ottenere. Ovviamente un esperto grafologo avrebbe visto immediatamente che la scrittura era della stessa persona. Ma Peg non era un’esperta grafologa. Peg era a malapena in grado di leggere. Peg era stupida. Peg era marcia di passione, gelosia e desiderio di protezione per il suo folle capo.

La nota diceva: "Lei è traditore. Piano con me. Camera di Arlen più sicura". L’avevo scritta fra tutto l’accartocciare, lo strappare e l’armeggiare con la mia "isteria" e non era stato difficile farla scivolare nella tasca di Peg. Non per una persona che aveva un tempo infilato la mano in tasca al governatore del Nuovo Messico, ospite di Leisha, perché il governatore era un Mulo importante e io ero uno scialbo ragazzino menomato che era stato appena buttato fuori a calci dalla terza scuola dove i soldi da Mulo di Leisha avevano cercato di farmi restare.

"Leisha…"

Gli squali argentati si muovevano sempre più velocemente attraverso la mia mente. Peg sarebbe riuscita a decifrare la parola "traditore"? Forse sarei dovuto rimanere sulle parole di una sola sillaba. Forse era più professionista che non malata d’amore, o meno stupida che gelosa. Forse…

La serratura si illuminò. La porta si aprì. Nello stesso secondo in cui lei fu dentro io le sbattei in faccia la sedia a rotelle, sollevandola in alto con ogni briciolo della forza dei miei muscoli delle braccia potenziati. Lei ricadde contro la porta, chiudendola. Restò stordita per un solo istante, ma era solo di un istante che io avevo bisogno. Brandii nuovamente la sedia, questa volta puntando il bracciolo, che avevo piegato ad angolo, direttamente contro il suo stomaco. Se fosse stata un uomo avrei mirato alle palle. Con estrema pazienza avevo rimosso l’imbottitura del bracciolo e avevo lavorato il metallo, avanti e indietro, col sudore che mi colava lungo la faccia, finché non si era spezzato, formando una punta, quindi avevo riapplicato il bracciolo. Mi erano occorsi giorni, per nascondere il mio lavoro sia ai monitor sia a Peg. Al metallo affilato e spezzato occorse soltanto qualche secondo per trafiggere l’addome di Peg e impalarla.

Lei gridò, afferrò il metallo e cadde sulle ginocchia, bloccata dall’ingombro della sedia. Era forte, però: in un momento aveva tirato fuori dalla carne il bracciolo spezzato. Il sangue le scorreva dal ventre, ma non tanto quanto io avevo sperato. Si voltò verso di me e mi accorsi che, in tutti i miei concerti, in tutto il mio lavoro con le forme inconsce della mia mente, non avevo mai creato nulla di così selvaggio come l’aspetto del volto di Peg in quel momento.

Adesso però lei era in ginocchio, al mio livello. Era forte, allenata e più grossa di me, ma io ero potenziato e ben allenato. Ci azzuffammo, riuscii a piazzarle entrambe le mani attorno al collo e strinsi.

Peg mi colpì duramente. Mi esplose un gran dolore nella testa, un geyser bruciante che spruzzò la grata scura. Tenni duro. Il dolore soffocava entrambi, soffocava ogni cosa.

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