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Avevano costruito un palco gravitazionale fluttuante a una estremità dell’arena, con un’ampia passerella che conduceva nella stanza superiore in cui stavo aspettando. Il treno a gravità era deragliato, l’aeromobile si era guastato. Sapevo che i dispositivi a gravità non manipolavano realmente la gravità ma il magnetismo: non capivo come. Quali erano le probabilità che ben tre dispositivi magnetici mi si rompessero in una sola serata? Jonathan Markowitz lo avrebbe saputo, fino al ventesimo decimale.

— …uno dei principali artisti dei nostri tempi… — la trasmissione della Congressista Gardiner dal palco.

Ovviamente, poteva anche non essere stata proprio l’unità a gravità a rompersi nel treno. Un treno a gravità poteva avere centinaia di parti mobili diverse, migliaia per quel che ne sapevo io. Di che cosa erano esattamente fatte?

— …con profonda gratitudine per l’opportunità di mostrare a voi tutti il Sognatore Lucido, io…

"Io. Io. Io." La parola preferita dei Muli. A Huevos Verdes almeno dicevano "noi". E intendevano ben più dei soli Super-Insonni.

Una pallida erba verde si increspò davanti alla grata color porpora. Vi crebbe sopra, attraverso, attorno. La inghiottì. Inghiottì il mondo.

Mi serrai con forza le mani davanti. Dovevo andare in scena in due minuti. Dovevo controllare le immagini nella mente. Io ero il Sognatore Lucido.

— …comprensibilmente afflitti per la tragedia ma il cordoglio è una delle emozioni che il Sognatore Lucido…

— Che cazzo ne sai tu del lutto, tu? — gridò così forte una persona fra la folla che io sobbalzai. Qualcuno fra il pubblico aveva un amplificatore vocale potente quasi quanto i miei apparecchi acustici. Dal punto in cui ero seduto non riuscivo a vedere il pubblico, ma soltanto la Congressista Gardiner. Udii tuttavia un vasto e crescente brontolio, quasi come il Delta quando straripa.

— …lieta di presentarvi…

— Vattene, stronza! — La stessa voce amplificata. Portai in avanti la carrozzella. A metà della passerella la congressista mi superò a testa alta, con le labbra sorridenti e gli occhi ardenti di rabbia. Non ci fu applauso.

Portai la carrozzella fino al centro della piattaforma fluttuante e puntai le mie lenti sullo zoom. La KingDome era piena per metà. Le persone mi fissarono, alcune con espressione vacua, altre incerta, altre ancora con occhi sbarrati, ma nessuno sorrise. Non mi ero mai trovato ad affrontare nulla di simile. Erano in equilibrio su un margine che stava esattamente fra un pubblico e una folla sediziosa.

— È una sedia da Mulo quella dove stai seduto, Arlen, tu? — gridò la voce amplificata e io ne identificai il proprietario quando svariate persone si voltarono verso di lui. Un uomo gli dette uno spintone, un altro lo fissò in modo truce, un terzo si mosse con atteggiamento protettivo di fronte al disturbatore e fissò con un’occhiata dura il palcoscenico. Qualcuno nelle prime file gridò debolmente, privo di amplificazione: — Il Sognatore Lucido non è un Mulo, lui. Chiudi il becco!

Io dissi, così piano che tutti dovettero zittirsi per potermi sentire: — Non sono un Mulo, io.

Un altro gorgoglio si alzò dal pubblico e nella mente vidi l’acqua inondare il Delta dove ero nato, acqua non veloce ma implacabile che si alzava a picco, come una qualsiasi curva di Huevos Verdes sullo sfascio sociale.

— Sono morte delle persone, loro, nel pidocchioso treno di Muli che nessuno si preoccupa di mantenere funzionante! — gridò la voce amplificata. — Morti!

— Lo so — dissi io, ancora a bassa voce e la grata smise di tremare mentre la mia mente si riempiva di lente e ampie forme che si muovevano con grazia maestosa, del colore della terra umida. Premetti un pulsante che avevo sulla carrozzella e i macchinari del concerto cominciarono ad affievolire le luci sul palco.

Dovevo rappresentare Il Guerriero, studiato e ristudiato e ristudiato ancora per incoraggiare un’indipendente disposizione a correre rischi, all’azione, alla autonomia. Nella strumentazione del concerto erano in memoria anche i nastri, gli ologrammi e i subliminali per Cielo, il più popolare dei miei concerti. Esso conduceva le persone in un luogo calmo all’interno della loro stessa mente, il luogo che tutti noi eravamo in grado di raggiungere da bambini, dove il mondo è in equilibrio perfetto e noi insieme con esso, e la calda luce del sole non inonda solamente la nostra pelle, ma penetra fin dentro l’anima e ci trascina in un luogo benedetto. Era un concerto di riconciliazione, di riposo, di accettazione. Potevo dare quello. Nel giro di dieci minuti la massa sarebbe stata un comodo cuscino.

Iniziai Il Guerriero.

— C’era una volta un uomo di grande speranza e nessun potere. Quando era giovane voleva tutto…

Le parole li quietarono. Le parole, tuttavia, erano il meno, erano realmente poco importanti. Erano le forme quelle che contavano, il modo in cui le forme si muovevano e i corridoi che le forme aprivano verso i luoghi più nascosti della mente, differenti in ogni persona. Io ero l’unico al mondo che poteva programmare quelle forme, recuperandole dalla mia stessa mente i cui sentieri neurali verso l’inconscio erano stati aperti da una bizzarra operazione illegale. Io ero il Sognatore Lucido.

— Voleva la forza, lui, che avrebbe costretto tutti gli altri uomini a rispettarlo.

Nessuno a Huevos Verdes era in grado di farlo: afferrare le menti e le anime dell’ottanta per cento delle persone. Guidarle anche se solo più profondamente in loro stessi. Modellarli. No… dare forme loro proprie.

"Tu comprendi che cos’è quello che fai alle menti delle altre persone?" mi aveva chiesto Miri con la sua parlata leggermente troppo lenta, poco tempo dopo che ci eravamo conosciuti. Mi ero fatto coraggio, già allora, preparandomi per equazioni, formule di conversione di Lawson e diagrammi complessi. Lei però mi aveva sorpreso. "Tu porti le persone nella diversità."

"La…"

"Diversità, La realtà che sta sotto la realtà. Tu trafiggi il mondo delle relatività così che la mente riesce a cogliere che esiste un assoluto più vero al di sotto delle fragili strutture della vita di tutti i giorni. Solo cogliere fugacemente, ovviamente. È tutto ciò che la scienza possa realmente darci: occhiate fugaci. Tu riesci tuttavia a portarci persone che non potrebbero mai essere scienziati."

L’avevo fissata, stranamente impaurito. Non era quella la Miri che ero abituato a vedere. Si era scostata dal volto i capelli scompigliati e avevo visto che i suoi occhi scuri apparivano raddolciti e distanti. "Lo fai davvero, Drew. Per noi Super così come per i Vivi. Scosti il velo perché possiamo dare una fugace occhiata al resto che siamo."

La mia paura scese in profondità. Non era da lei.

"Ovviamente" aveva aggiunto "a differenza della scienza, il sogno lucido non ricade sotto il controllo di nessuno. Nemmeno sotto il tuo. Manca della cardinale qualità della ripetibilità."

Miri aveva a quel punto notato la mia espressione e si era accorta che le sue ultime parole erano state uno sbaglio. Aveva declassato quello che io facevo come di seconda categoria, ancora una volta. La sua cocciuta fede nella verità, tuttavia, non le avrebbe permesso di recedere da quello in cui in effetti credeva. Il sogno lucido mancava di una qualità cardinale. Aveva distolto lo sguardo.

Non avevamo mai più discusso della diversità.

Adesso i volti dei Vivi mi fissavano, aperti. Vecchi con profonde rughe e spalle incurvate. Giovanotti con le mascelle serrate che mostravano gli stessi occhi sbarrati dei bambini. Donne che tenevano in braccio piccini, con la stanchezza che scompariva dalle loro facce quando le labbra si incurvavano debolmente, trasognate. Visi orrendi, bellezze naturali, visi infuriati, visi in lutto e visi sconcertati di persone che avevano ritenuto di essere padroni delle proprie vite e stavano scoprendo in quel momento di non fare nemmeno parte del Consiglio di Amministrazione.

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