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La base del raggio aveva una circonferenza di duecentocinquanta chilometri circa. Iniziarono a percorrerla cercando qualcosa per salire, qualsiasi cosa: da una scala a un elicottero antigravitazionale. Trovarono solo alberi orizzontali che crescevano nella foresta verticale.

Inoltrandosi dai rami esterni alle radici abbarbicate alle pareti, dovettero superare una zona in salita, fatta di alberi spezzati e di foglie che marcivano. Le pareti del raggio erano costituite da un materiale grigio, spugnoso, che si piegava al tocco delle mani. Quando Cirocco strappò un cespuglio dalla parete, scoprì che possedeva una radice a fittone. Dalla parete uscì un fluido denso, lattiginoso; poi, lentamente, il buco si chiuse da solo.

Non c’era terriccio, e la luce, nonostante la prima impressione che ne avevano avuto, era scarsa. Cirocco stabilì che, come molte delle piante dell’orlo esterno, la vita lì dipendeva dalle risorse vitali presenti subito sotto la superficie.

La parete era umida; vi crescevano sopra muschio e licheni, ma i vegetali di dimensioni modeste erano scarsi. Non esisteva erba; i rampicanti erano tutti parassiti che spuntavano dalle radici degli alberi. Molti alberi appartenevano allo stesso tipo di quelli che avevano visto sull’orlo esterno, adattati a un’esistenza orizzontale. C’erano frutti già familiari e molte noci e nocciole.

— E questo ci risolve il problema del cibo — disse Gaby.

All’interno del raggio non potevano scorrere fiumi, ma sulle pareti si vedevano rivoletti di acqua. Molto più in alto, alcuni getti d’acqua, disposti in maniera regolare, scendevano verso di loro, trasformandosi in nebbia prima di raggiungere il suolo.

Gaby notò che sembravano equamente distribuiti, come innaffiatori automatici su un prato ben tenuto.

— Non moriremo nemmeno di sete — disse Cirocco.

Cominciarono a pensare che forse non era del tutto impossibile salire. Escludendo la possibilità di una scala (che comunque non avrebbero mai trovato, perché gli alberi non permettevano di esplorare troppo da vicino le pareti), avevano di fronte due alternative.

Potevano arrampicarsi in alto scalando gli alberi. I rami erano talmente intrecciati fra loro che si poteva passare da un albero all’altro senza soluzione di continuità, almeno in teoria.

La seconda possibilità era una scalata alpinistica vera e propria. Scoprirono che per infilare i chiodi nella parete bastava una semplice pressione della mano, data la natura porosa del materiale.

Cirocco avrebbe preferito salire lungo le pareti, perché gli alberi non le sembravano resistenti; Gaby preferiva l’altra soluzione che le sembrava più rapida. Discussero per un giorno intero, poi successero due cose.

Gaby si accorse della prima mentre guardava in giù, verso l’attaccatura del raggio.

— Mi pare che non ci sia più il foro — disse, puntando l’indice. Cirocco guardò socchiudendo gli occhi per vedere meglio, ma non riuscì a esserne sicura.

— Arrampichiamo un poco, così potremo vedere meglio.

Si legarono per farsi sicurezza l’un l’altra e poi cominciarono ad arrampicarsi sugli alberi.

Arrampicarsi non era poi molto difficile. Spostandosi di continuo da quelli più vicini alla parete, solidi come la roccia ma molto distanziati l’uno dall’altro, a quelli più esterni, esili ma pieni di appigli per mani e piedi, la cosa non era troppo difficile.

— Un po’ più in dentro — urlò Cirocco a Gaby, che la precedeva di cinque metri. — Direi che possiamo fermarci a due terzi dalla cima dell’albero.

— In dentro? … Cima? — chiese Gaby. — Ma cosa dici?

— La base degli alberi è quella vicina alla parete, la cima quella sospesa per aria. Non ti sembra semplice?

Dopo essersi arrampicate attraverso una decina d’alberi cominciarono a tracciarsi il percorso verso la cima dell’ultimo di essi.

Quando i rami su cui si spostavano cominciavano a incurvarsi, passavano velocemente ad assicurarsi su un ramo più robusto. La pendenza giocava a loro favore come se aprisse per loro una finestra in un’altrimenti impenetrabile foresta. Avevano scelto un albero che, in una foresta orizzontale, avrebbe torreggiato sui suoi vicini. In quel posto doveva contentarsi di spingersi lontano dalla parete.

— Avevi ragione. È scomparso.

— Non ancora, ma sta scomparendo.

Del foro alla base del raggio restava solo un sottile ovale nero che si stava contraendo come l’iride di un occhio. Giorni prima, quando lo avevano visto da sotto, il foro aveva praticamente la stessa circonferenza del raggio. Adesso si era ridotto ad appena dieci chilometri di diametro, e continuava a rimpicciolire. Presto si sarebbe chiuso attorno ai cavi verticali che uscivano dal suo centro.

— Idee? — chiese. — Che senso ha chiudere quel foro e sigillare il raggio?

— E chi lo sa? Comunque penso che si riaprirà. Gli angeli entrano ed escono regolarmente da qui, per cui… — S’interruppe sorridendo. — È il respiro di Gea.

— Come?

— È quello che i titanidi chiamano vento da est. Oceano porta il freddo e il Lamento, Rea porta l’aria calda e gli angeli. Immagina di avere un tubo lungo trecento chilometri, con una valvola a ognuna delle due estremità. Potresti usarlo come pompa. Potresti creare zone di alta e di bassa pressione e sfruttarle per spostare l’aria.

— E come potrei fare? — chiese Gaby.

— Direi che esistono due modi. Potrebbe esserci un pistone mobile per comprimere o rarefare l’aria. Però non l’ho visto, e preghiamo il cielo che non ci sia, se no ci fa a pezzi.

— Avrebbe già schiacciato gli alberi.

— Giusto. Per cui passiamo all’altro sistema: le pareti possono espandersi e contrarsi. Si chiude la valvola sul fondo, si apre quella in alto, si fa espandere il raggio, e l’aria viene risucchiata dall’alto. Se invece si chiude la valvola in alto, si apre quella in basso e si fanno contrarre le pareti, l’aria viene spinta fuori dal basso.

— E da dove viene l’aria risucchiata dall’alto?

— O passa attraverso i cavi, oppure proviene dagli altri raggi. Non dimentichiamo che in alto sono tutti collegati fra loro. Con qualche altra valvola è possibile ottenere effetti globali massicci. Aprendo e chiudendo alcuni raggi l’aria viene risucchiata da Oceano, finisce nel mozzo e viene pompata in questo raggio. Aprendo e chiudendo altri raggi, l’aria viene spinta giù su Rea. Vorrei solo capire perché i costruttori hanno ritenuto necessario un impianto del genere.

— Credo di saperlo — rispose Gaby, dopo un attimo di riflessione. — È una domanda che mi ponevo da un po’: come mai l’aria non si accumula tutta in fondo ai raggi, sopra l’orlo esterno? Lì l’atmosfera è meno densa, ma va bene lo stesso perché la pressione dell’aria sull’orlo esterno è più alta che sulla Terra. E con una gravità bassa, la pressione scende meno in fretta. Ad esempio l’atmosfera di Marte è molto rarefatta, però sale molto in alto. Quindi l’aria non ha il tempo di fermarsi, se la si tiene continuamente in circolazione, e la pressione rimane relativamente costante per tutta Gea.

Cirocco sospirò, annuì.

— Va bene. Hai distrutto la mia ultima obiezione alla salita. Abbiamo cibo e acqua, e a quanto pare abbiamo anche l’aria. Che ne dici? Ci rimettiamo in marcia?

— E se invece esplorassimo il resto della parete?

— Ma perché mai? Potremmo anche aver già superato quello che stiamo cercando. E non c’è modo d’accorgersene.

— Temo che tu abbia ragione. Okay, partiamo.

Scalare gli alberi era un’operazione faticosa, noiosa, che richiedeva continuamente la massima concentrazione. Al confronto, l’ascesa sul cavo sembrava una cosa da niente.

L’unica consolazione dopo dieci ore di scalata fu che si sentivano in forma. Cirocco era stanca, aveva le mani spellate e sentiva un leggero mal di schiena, ma per il resto stava bene. Dormire sarebbe stato meraviglioso. Salirono in cima a un albero per dare un’occhiata sotto prima di accamparsi.

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