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— Riesci a misurare la distanza che abbiamo percorso? — chiese Gaby.

Cirocco si sporse in fuori per tentare una valutazione, e a momenti volò giù. Gaby dovette afferrarla per le spalle e tirarla indietro. — Ehi! — esclamò Cirocco. — Grazie. Non mi piacerebbe proprio trovarmi a penzolare nel vuoto appesa alla corda.

Riprese fiato, guardò di nuovo giù. — Cosa posso dirti? Mi sembra che abbiamo fatto un sacco di strada, ma la cima è lontana come prima. Credo che avremo questa sensazione per parecchio tempo.

— Diciamo che abbiamo fatto tre chilometri?

— Se ti va bene…

Il che significava, in assenza di problemi, cento giorni di scalata. Cirocco gemette e guardò ancora giù. Cercava di convincersi che avessero percorso cinque chilometri, ma in realtà sospettava che fossero solo due.

Tornarono indietro e trovarono due rami praticamente paralleli distanti poco più di due metri e mezzo l’uno dall’altro. Vi appesero le amache, si sedettero su un ramo e consumarono un pasto freddo composto di frutta e verdure crude, poi s’infilarono nelle amache e si abbandonarono al sonno.

Due ore dopo si mise a piovere.

Cirocco si svegliò sentendo le gocce sul viso, spostò la testa e lanciò uno sguardo all’orologio. Era più buio di quando si erano coricate. Gaby russava leggermente, il viso premuto contro il fondo dell’amaca. Avrebbe avuto un po’ di mal di gola, al momento del risveglio. Cirocco voleva avvertirla ma poi decise che se, malgrado la pioggia, riusciva a dormire, era meglio per lei.

Per prima cosa, prima ancora di spostare l’amaca, si spostò sulla cima dell’albero. Sopra di lei c’era un banco d’umidità da cui cadeva la pioggia, ma al centro del raggio pioveva molto più forte. Su di loro scendeva solo l’acqua che si raccoglieva nelle foglie e colava giù per i rami.

Quando scese, Gaby era sveglia e lo sgocciolio era sempre più forte. Spostare le amache non sarebbe servito a niente. Decisero di alzare una tenda per ripararsi alla meglio, usando la parete come punto d’appoggio. Si asciugarono come poterono e si distesero di nuovo. L’umidità era forte ma Cirocco era così stanca che si addormentò velocemente cullata dal suono dell’acqua che ticchettava sulla copertura.

Due ore dopo si svegliarono semi-congelate.

Dovettero tirare fuori coperte e maglioni e rannicchiarsi nella amache. Ci volle una buona mezz’ora prima che tornassero a scaldarsi. L’ondeggiare lento degli alberi le aiutò ad assopirsi.

Cirocco starnutì, sollevando una nube di neve. Era una neve molto leggera, molto friabile, e s’era infilata in ogni angolo della sua amaca. Quando si mise a sedere, la neve le scese nel grembo come una piccola slavina.

La tenda era tutta incrostata di ghiaccio. Il vento agitava le foglie, che scricchiolavano con rumori secchi. La mano intorpidita di Cirocco scosse le spalle di Gaby.

— Eh? Eh? — Un occhio di Gaby non si apriva per le incrostazioni di ghiaccio. — Oh, accidenti! — La tosse la piegò in due.

— Stai bene?

— Penso di sì, a parte un orecchio congelato. Cosa facciamo?

— Infiliamoci tutti i vestiti che abbiamo e aspettiamo che smetta di nevicare.

Non era facile restare lì sedute sulle amache con quel freddo. A Cirocco sfuggì di mano un guanto, che cadde giù. Si mise a imprecare, poi ricordò che avevano con loro i guanti di Gene.

Dormire era impossibile. Sotto le coperte e i vestiti faceva abbastanza caldo, ma la faccia tendeva a congelare. Ogni dieci minuti dovevano scrollarsi di dosso la neve che si accumulava sui loro corpi.

Anche parlare era difficile, perché il raggio risuonava di mille rumori. A Cirocco i minuti sembravano ore quando si copriva la testa con la coperta e ascoltava l’ululato del vento. Sotto, si udiva uno scricchiolio continuo, pauroso; erano i rami degli alberi carichi di ghiaccio che il vento spezzava e faceva precipitare.

Aspettarono cinque ore. Il vento rinforzò e il freddo si fece più intenso. Un ramo precipitò accanto alle loro amache, e Cirocco restò ad ascoltare il rumore mentre attraversava la crosta di ghiaccio che ricopriva la foresta.

— Gaby, mi senti?

— Ti sento, capitano. Cosa facciamo?

— L’idea mi ripugna, ma dovremmo muoverci. Voglio trovare rami più robusti. Non credo che questi si spezzeranno, ma se per caso succedesse, sarebbe la fine.

— Aspettavo che tu lanciassi l’idea.

Uscire dalle amache fu un incubo. Quando riemersero sul ramo, l’incubo peggiorò. Le loro corde si erano congelate. Dovettero piegarle e scrollarle, e fu terribile. La salita si svolse in condizioni di estrema difficoltà. A causa del ghiaccio, dovettero usare i martelli per piantare i chiodi nella parete, e usarono le piccozze per scrostare il ghiaccio dei rami su cui camminavano. Nonostante tutte le loro precauzioni, Cirocco scivolò due volte e Gaby una. La seconda volta, quando la corda arrestò la sua caduta, Cirocco si stirò un muscolo della schiena.

Dopo un’ora di sforzi raggiunsero un tronco enorme, abbastanza robusto e grande da potercisi sedere sopra. Ma lì non c’erano rami, e il vento era più forte che mai.

Si legarono al tronco e si misero ad aspettare.

Cirocco tossì a lungo prima di riuscire a parlare.

— Non vorrei dirlo, ma non mi sento più i piedi.

— Cosa proponi di fare?

— Non lo so. So solo che se non facciamo qualcosa moriremo congelate. O ci rimettiamo in moto o troviamo un riparo. Giù in fondo c’è sempre la scalinata.

— Per arrivare fin qui abbiamo impiegato un giorno, e non c’era il ghiaccio a complicarci la vita. Per tornare alla scalinata ci vorrebbero un paio di giorni, ammesso che la neve non abbia seppellito l’entrata. Penso che ci convenga salire, altrimenti congeliamo sul serio. Il movimento dovrebbe scaldarci un po’.

— Sono d’accordo — disse Gaby. — Però prima potremmo tentare un’altra via. Arriviamo fino alla parete. Ricordi quando parlavi degli angeli? Hai detto che forse nel raggio c’erano delle caverne. Vediamo di trovarle.

Cirocco sapeva che la cosa principale da fare era muoversi per permettere al sangue di circolare e di trasportare calore.

S’incamminarono, strisciando, sul tronco. In quindici minuti raggiunsero la parete. Gaby la studiò, poi si fece forza e cominciò a picconare il ghiaccio. Quando riapparve la solita sostanza grigia, continuò a dare colpi. Cirocco capì cosa voleva fare e le diede una mano.

Per un po’ tutto andò bene. Scavarono un buco di mezzo metro di diametro. La sostanza lattiginosa che usciva dalla parete si congelava subito, e dovettero tirar via anche quella. Gaby era un demone coperto di neve, una furia bianca che si agitava senza sosta.

Poi raggiunsero un secondo strato della parete, durissimo. Era impossibile scavarlo.

— Be’, era un’idea — disse Gaby, abbandonando le mani lungo i fianchi. Fissò, disgustata, la neve che era caduta tutt’attorno a loro per effetto delle vibrazioni. Poi inclinò la testa e guardò in alto, nel buio. Indietreggiò di un passo, afferrandosi al braccio di Cirocco per non cadere rovinosamente sul ghiaccio.

— Lì c’è un punto più scuro — disse, puntando l’indice. — Dieci… no, quindici metri sopra di noi, un po’ sulla destra. Lo vedi?

Cirocco non era sicura. Vedeva diversi punti scuri, ma nessuno le dava l’impressione di essere una caverna.

— Vado a dare un’occhiata.

— Vado io. Tu hai lavorato come una matta.

Gaby scosse la testa. — Io sono più leggera.

Cirocco non fece discussioni. Gaby cominciò a piantare chiodi nella parete, più in alto che poteva. Poi vi passava la corda e si arrampicava di nuovo più in alto che poteva per piantare un secondo chiodo. Quando si sentiva sicura toglieva il primo e lo piantava ancora più su.

Impiegò un’ora per raggiungere il punto più scuro. Sotto, Cirocco rabbrividiva, batteva i piedi, scagliava via i pezzetti di ghiaccio che Gaby faceva cadere. Poi le precipitò sulle spalle un mucchio di neve, e lei cadde sulle ginocchia.

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