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— Sì… Sì, certo, parlerò. — Aprì la bocca per dire qualcosa, si chiese dove fosse andata a finire tutta la sua collera; poi lanciò un’occhiata a Gaby. Gaby tremava, fissava Gea a occhi spalancati.

— Sono già stata qui — sussurrava. — Ci sono già stata.

— Zitta — sibilò Cirocco, dandole un colpo col gomito. — Ne parleremo dopo. — Si asciugò il sudore dalla fronte e tornò a fissare Gea.

— O grande… — No. Aprile le aveva detto di non chiedere, di non implorare. Doveva essere un eroe. Pregò che Aprile non si sbagliasse.

— Siamo giunti… Ecco, io e sei altri siamo giunti… dal pianeta Terra, che è molto… A dire il vero non so quanto… — S’interruppe. Con l’inglese non avrebbe concluso niente. Tirò un respiro e cominciò a cantare.

— Siamo giunti in pace, non so quanto tempo fa. Eravamo poche persone, dal tuo punto di vista, e certo non costituivamo una minaccia. Eravamo disarmati. Eppure tu ci hai attaccati. Hai distrutto la nostra nave prima che potessimo darti una spiegazione. Siamo rimasti confinati contro la nostra volontà, incapaci di comunicare fra noi e coi nostri compagni sulla Terra, e la nostra mente ne ha sofferto. Siamo stati cambiati. Uno dei miei uomini è impazzito. Un altro, una donna, era prossimo alla follia quando l’ho lasciato. Un terzo non desiderava più la compagnia di altri esseri umani, e un quarto ha perso gran parte della sua memoria. Un altro ancora, un’altra donna, è mutato oltre ogni limite; non riconosce più la propria sorella, che un tempo amava. Per noi queste cose sono mostruose. Ritengo che tu ci abbia ingannati e ci debba una spiegazione, perché noi vogliamo giustizia.

Era contenta di aver detto tutte quelle cose, anche se non aveva idea di cosa potesse succedere. Certo non s’illudeva più di poter combattere quell’essere.

Gea divenne ancora più cupa.

— Io non sono una firmataria degli accordi di Ginevra.

Cirocco spalancò la bocca. Non sapeva che risposta si era aspettata, ma non certo quella.

— E allora cosa sei? — disse prima di aver potuto pensare.

— Sono Gea, la grande e la saggia. Sono il mondo, sono la verità, sono la legge, sono…

— Sei davvero questo pianeta? Aprile diceva la verità?

Forse non era saggio interrompere una dea, ma Cirocco, ormai non conosceva più limiti.

— Non del tutto — brontolò Gea. — Comunque sì, è vero: io sono la Madre Terra, anche se non appartengo al vostro pianeta. Ogni forma di vita nasce da me. Io appartengo a un panteon che si estende sino alle stelle. Diciamo che sono un Titano.

— Allora sei stata tu a…

— Basta. Io ascolto solo gli eroi. Tu hai parlato di grandi gesta, intonando i tuoi canti. Raccontamele ora, oppure vattene per sempre. Cantami le tue avventure.

— Ma…

— Canta! — tuonò Gea.

E lei cantò. Ci vollero diverse ore. Cirocco tendeva a condensare, ma Gea insisteva sui particolari. Cirocco cominciò a eccitarsi nel raccontare. Il linguaggio dei titanidi era meravigliosamente adatto. Quando ebbe finito, si sentì più fiera di sé, un po’ più sicura.

Gea sembrò meditare sul suo canto. Cirocco saltellava nervosamente da un piede all’altro.

Alla fine, Gea parlò.

— Un buon racconto, come non ne ascolto da molto tempo. Davvero eroico. Parlerò con voi due nelle mie stanze.

Svanì, in un guizzo di fiamme che durò pochi minuti.

Loro si guardarono attorno. Erano in una grande stanza a volta. La scala, buia, scendeva verso l’interno del mozzo. Nell’aria c’era odore di gomma bruciata.

Il pavimento di marmo era crepato e scolorito, coperto da uno strato di polvere su cui le loro impronte spiccavano nettissime. Quel posto sembrava un teatro in rovina, spogliato di tutti gli orpelli.

— Ho visto cose molto strane da quando siamo qui — disse Gaby — ma questo è il massimo. Adesso dove si va?

Cirocco le indicò una porticina nella parete alla loro sinistra. Era socchiusa e dallo spiraglio filtrava un filo di luce.

Cirocco la spalancò, entrò. Le pareva di riconoscere l’ambiente.

Erano in una grande stanza, col soffitto alto quattro metri. Il pavimento era composto di rettangoli di vetro bianchi. Dal basso saliva luce. Le pareti avevano pannelli di legno beige e recavano appesi dipinti a olio. I mobili erano in stile Luigi XVI.

— Déjà vu, eh? — disse una voce dall’altro lato della stanza. Era una donna piccola, grassoccia, avvolta in un vestito di tela di sacco. Sembrava la brutta copia di Gea.

— Sedetevi, sedetevi — aggiunse allegramente. — Qui non facciamo cerimonie. La facciata di rappresentanza l’avete già vista; questa è l’amara realtà. Posso offrirvi qualcosa?

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Cirocco aveva smesso di formulare opinioni.

— La sai una cosa? — disse, stordita. — Se qualcuno venisse a raccontarmi che il Ringmaster non ha mai lasciato l’orbita della Terra, che tutta questa storia è stata messa in piedi da qualche sceneggiatore di Hollywood, non batterei ciglio.

— Una reazione perfettamente naturale — convenne Gea.

Girava nella stanza, versava un bicchiere di vino per Gaby e un doppio scotch con ghiaccio per Cirocco, raddrizzava i quadri, spolverava i tavoli con l’orlo del vestito.

Gea era piccola e tozza, con una forma che ricordava un barilotto. La sua pelle era sciupata e scura. Il naso sembrava una patata. Ma i suoi occhi e la sua bocca sensuale avevano un’espressione sorridente.

Cirocco cercò di capire chi le ricordasse quella faccia, soprattutto per risparmiarsi la fatica di pensare. W.C. Fields? No, a parte il naso. Ecco, sì: Gea era identica a Charles Laughton in La vita privata di Enrico VIII.

Gaby e Cirocco sedevano alle due estremità di un divanetto. Gea mise un bicchiere sui tavolini che avevano vicino, poi andò a sistemarsi su una poltrona dallo schienale alto. Ansimò un attimo, poi intrecciò le dita in grembo.

— Chiedetemi quello che volete — disse, protendendosi in avanti. Cirocco e Gaby si fissarono, poi guardarono Gea. Ci fu un breve silenzio.

— Parli inglese — disse Cirocco.

— Questa non è una domanda.

— Come fai a parlare inglese? Dove l’hai imparato?

— Guardo la televisione.

Cirocco aveva in mente una domanda, ma esitava a farla. E se quella donna fosse stata solo l’ultima sopravvissuta dei costruttori di Gea? Non avevano trovato nessuna prova a favore del fatto che Gea fosse davvero un organismo unico, come aveva detto Aprile; però era possibile che quella persona credesse di essere una dea.

— E tutta… tutta quella scena qui fuori? — chiese Gaby.

Gea agitò vagamente una mano.

— Solo giochi di specchi, mia cara. Trucchetti. — La sua faccia assunse un’espressione quasi di vergogna. — Volevo spaventarvi, nel caso non foste veri eroi. Ho fatto del mio meglio. Poi ho pensato che a questo punto era il caso di venire a discutere qui. Un ambiente comodo, cibi e bevande… Volete mangiare qualcosa? Un caffè? Un po’ di cocaina?

— No, io… Hai detto caffè? Cocaina?

Le prudeva ancora un poco il naso, ma Cirocco si sentiva più attenta e meno impaurita che mai. Puntò gli occhi in quelli della creatura che si chiamava Gea.

— Specchi, hai detto. Allora tu dove sei?

Il sorriso di Gea si allargò.

— Al nocciolo della questione, eh? Bene. Mi piacciono le maniere spicce. — Si leccò le labbra, parve meditare sulla domanda. — Vuoi sapere cos’è questo, o cosa sono io? — Appoggiò le mani appena sopra i suoi seni enormi senza aspettare la risposta. — Io sono tre tipi di vita. C’è il mio corpo, che è l’ambiente in cui voi avete vissuto. Poi ci sono le mie creature, come i titanidi, che appartengono a me ma non sono controllate da me. E poi ci sono i miei strumenti, separati da me, ma parte di me. Posseggo alcuni poteri mentali, che tra parentesi mi sono serviti per creare le illusioni che avete visto poco fa. Diciamo che si tratta di ipnotismo e telepatia, anche se non è esatto. Sono capace di costruire creature che sono estensioni della mia volontà. Questa che vedete ha ottant’anni, ed è l’unica del suo genere. Ne ho anche altri tipi. Sono state queste creature a costruire la stanza e la scalinata esterna, da idee che ho rubato ai vostri film. Io vado pazza per il cinema, quindi capisco…

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