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Due giorni dopo quell’esplorazione, il Titanic uscì dalla foresta tropicale. Il terreno diventò piatto come un tavolo da biliardo, e il fiume si allargò per chilometri e chilometri in ogni direzione. Non esisteva più una riva vera e propria. Gli unici segni di confine tra il fiume e un terreno acquitrinoso erano ciuffi di erba alta con le radici sul fondo dell’acqua, e a volte i banchi di fango alti un metro. L’acqua si stendeva sopra ogni cosa, raramente più profonda di dieci centimetri se non nelle innumerevoli insenature, rientranze e zone di ristagno. Lì vivevano lunghe anguille e pesci monocoli, grandi quanto un ippopotamo, immersi nel fango.

Gli alberi della zona erano di tre tipi, divisi a gruppi distanziati l’uno dall’altro. Cirocco trovava molto belli quelli che sembravano sculture di vetro, con alti tronchi trasparenti e rami a disposizione cristallina. I rami più bassi erano filamenti sottilissimi. Quando tirava vento, i rami meno forti si spezzavano. Recuperati e avvolti a una estremità nella stoffa dei paracadute, diventarono ottimi coltelli. Cirocco li chiamò alberi di Natale per il loro scintillio.

Il secondo tipo di alberi non era altrettanto bello. Ogni pianta sembrava un accumulo di tutte le porcherie che si possono trovare nel cortile di una fattoria per l’allevamento del bestiame. Per di più, puzzavano anche. Bill li chiamò alberi stercorari.

Poi c’erano alberi a metà strada fra il cipresso e il salice, curvi sotto i rampicanti che crescevano dappertutto.

Il paesaggio era piacevolmente alieno. La giungla che si erano lasciati alle spalle non era molto diversa da quelle dell’Amazzonia e del Congo. Lì, invece, non c’era niente di familiare, tutto era strano e affascinante.

In compenso, era impossibile accamparsi a terra. Presero l’abitudine di legare il Titanic agli alberi e dormire sull’imbarcazione. Pioveva ogni dieci-dodici ore. Tentarono di proteggersi con un telone fatto con la stoffa dei paracadute, ma l’acqua entrava sempre e bagnava il fondo del baccello. Faceva molto caldo, ma l’umidità altissima non lasciava asciugare niente.

I tre cominciavano a innervosirsi. Dormivano poco, litigavano per occupare i posti più comodi.

Cirocco si risvegliò da un incubo in cui non riusciva a respirare. Aprì gli occhi e si sentì umida, appiccicaticcia. Gaby le fece un cenno di saluto, poi tornò a guardare il fiume.

— Rocky — disse Bill — c’è qualcosa…

— No — rispose lei, irritata. — Voglio del caffè. Ucciderei qualcuno per un caffè. E non scherzo. Adesso lasciatemi in pace un minuto, prima di cominciare a farmi domande. — Si tolse i vestiti e si buttò nel fiume.

Era meglio, ma non troppo.

Proprio mentre pensava al sapone, sentì qualcosa di scivoloso sfiorarle un piede. Si rifiutò di chiedersi cosa potesse essere e si issò, gocciolando, sull’imbarcazione.

— Allora, cosa c’è?

Bill puntò l’indice verso la costa nord.

— Abbiamo visto del fumo da quella parte. Guarda dietro quel gruppo d’alberi, si vede ancora.

Cirocco si protese sul bordo del Titanic e lo vide: un’esile linea grigia che si stagliava contro lo sfondo nero, lontano, della parete nord di Gea.

— Andiamo a dare un’occhiata.

Bill fece strada tra il fango alto fino alle ginocchia e l’acqua stagnante. Cominciarono a sentirsi eccitati quando oltrepassarono il grande "albero stercorario" che prima bloccava loro la visuale. Cirocco sentì odore di fumo, corse avanti.

Cominciò a piovere proprio quando raggiunsero il fuoco. Non era una grande pioggia, ma nemmeno il fuoco era un granché: anzi, era alquanto striminzito. Sotto la pioggia il fumo cominciò a diventare bianco. Poi una lingua di fuoco si protese verso un cespuglio a pochi metri da loro.

— Trovate qualcosa di asciutto — ordinò Cirocco. — Va bene tutto. Un po’ d’erba e qualche rametto. Sbrigatevi, altrimenti si spegne. — Bill e Gaby partirono in direzioni opposte; Cirocco si inginocchiò davanti al cespuglio e si mise a soffiare sulle fiamme. Dopo un po’ le lacrimavano gli occhi, ma tenne duro.

Le portarono della legna ragionevolmente asciutta. Alla fine apparve chiaro che il fuoco non si sarebbe spento. Gaby urlò e lanciò un ramo per aria e rimasero tutti a guardarlo mentre disegnava un arco infuocato prima di toccare terra. Cirocco sorrise quando Bill le diede una pacca sulle spalle. Era una vittoria minima, ma poteva significare molto. Una sensazione deliziosa.

Quando smise di piovere, il fuoco era ancora acceso.

Il problema era non lasciarlo spegnere.

Discussero ore e ore, scartando le diverse ipotesi; e per mettere in azione il loro piano ci volle un giorno e mezzo. Modellarono due ciotole col fango, le fecero cuocere, poi fecero asciugare una grossa quantità di legna che bruciava più lentamente. Accesero un fuoco in ognuna delle due ciotole, per avere una scorta. Ovviamente doveva sempre esserci qualcuno a occuparsi del fuoco, ma non vedevano soluzioni migliori.

Quando ebbero finito era quasi ora di mettersi a dormire. Cirocco avrebbe voluto tentare di raggiungere una zona paludosa, ma Bill propose di uccidere un animale.

— Sono stufo marcio di quei meloni — disse. — L’ultimo che ho mangiato sembrava rancido.

— Sì, ma non ci sono sorrisoni. Non ne vedo da giorni.

— Vuol dire che cercheremo qualcos’altro. Abbiamo bisogno di carne.

In effetti, da un po’ di tempo non mangiavano bene. La giungla era scarsissima di frutti, al contrario della foresta. L’unico che avevano assaggiato sapeva di mango e aveva procurato a tutti la dissenteria. E su una barca, era comparabile a una sorta di girone infernale. Dopo di che, avevano continuato solo con le provviste.

Decisero che i pesci che vivevano nel fango erano la preda più ovvia. Come tutti gli altri animali già incontrati, parevano non accorgersi della loro presenza. Le altre bestie erano troppo piccole e veloci, oppure troppo grandi, come quelle anguilliformi.

I pesci se ne stavano col muso seppellito nel fango e si spostavano muovendo le pinne.

Ne circondarono uno. Era la prima volta che lo vedevano da vicino, ed era la cosa più orribile che si potesse immaginare. Era lungo tre metri, piatto verso la coda, rigonfio al centro del corpo, con una pinna orizzontale. Sul dorso aveva una lunga escrescenza grigia simile alla cresta di un gallo, però molliccia, che si gonfiava e sgonfiava ritmicamente.

— Sei sicuro di volerlo mangiare?

— Se se ne sta fermo, sì.

Cirocco si mise in posizione quattro metri davanti al muso, mentre Gaby e Bill si avvicinarono lateralmente. Tutti e tre avevano pugnali ricavati dagli "alberi di Natale".

Il pesce aveva un occhio solo, grande quanto una padella. L’occhio si gonfiò fino a fissare Bill, che si immobilizzò. Il pesce sbuffò.

— Bill, non mi piace.

— Non preoccuparti. Si sta solo inumidendo l’occhio. Non ha pupille. — Un flusso di liquido scendeva da un foro sopra l’occhio, producendo lo sbuffo che avevano sentito.

— Se lo dici tu. — Cirocco agitò le braccia, e il pesce si mise a fissare lei. Avanzò in punta di piedi. Il pesce, annoiato, distolse lo sguardo.

Bill prese la rincorsa e andò a infilare il pugnale nella pelle dietro l’occhio, trafiggendola profondamente. Il pesce sussultò quando Bill ritirò il pugnale.

Non successe nient’altro. L’occhio smise di muoversi. Il pesce si immobilizzò. Cirocco lasciò andare un sospiro, Bill rise.

— Troppo facile — disse. — Ma non ci capiterà mai niente di pericoloso? — Aveva la mano sporca di sangue. Il pesce si tese ad arco, in maniera che la coda arrivasse a toccare il muso; poi diede un gran colpo con la coda, verso Bill. La coda si infilò sotto il corpo di Bill e lo scaraventò in aria.

Cirocco non riuscì nemmeno a vedere dove fosse atterrato. Il pesce s’inarcò di nuovo, protendendo verso l’alto sia il muso sia la coda, bilanciandosi sul ventre. Per la prima volta, Cirocco vide la sua bocca: era rotonda come quella di una lampreda, con una doppia fila di denti digrignanti. La coda colpì il fango, e il pesce volò verso di lei.

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