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Passarono abbastanza vicini per vedere dagli oblò l’elijet sfrecciare attraverso il loro cono di luce, simile a un lampo intermittente. In quell’istante, Silver vide i volti attraverso la calotta trasparente, bianche macchie confuse con buchi neri al posto degli occhi e della bocca, tranne uno di loro, forse il pilota, che teneva le mani sul viso.

Poi non ci fu più nulla tra loro e le stelle d’argento.

Fuoco e ghiaccio.

Leo ricontrollò personalmente la tenuta di ogni ganascia a C, poi si spostò di qualche metro con i razzi della tuta per avere una visuale d’insieme del suo lavoro. Galleggiavano nello spazio ad una distanza di sicurezza di un chilometro dal nuovo complesso D-620-Habitat, che adesso incombeva con la sua enorme struttura ormai completata sopra l’orizzonte di Rodeo. Dall’esterno pareva che tutto fosse a posto, bastava non sapere nulla degli isterici collegamenti dell’ultimo minuto che avevano luogo all’interno.

Lo stampo di ghiaccio, una volta costruito, era largo tre metri e spesso quasi due. La superficie esterna era irregolare: avrebbe potuto essere un frammento dell’anello ghiacciato di qualche gigante gassosa. Il lato interno riproduceva perfettamente la liscia superficie ricurva del riflettore di vortice che lo aveva modellato.

La camera interna, priva d’aria, era rivestita di vari strati. Prima, la lastra di titanio, poi uno strato di benzina pura, come distanziatore (un altro uso che Leo era riuscito a trovare), perché, diversamente da altri liquidi, non si sarebbe congelata alla attuale temperatura del ghiaccio; dopo di questa, il sottile cerchio divisorio di plastica e poi la preziosa miscela esplosiva TNM-benzina; uno strato di rivestimento dell’Habitat, e infine le barre e le ganasce: tutto sommato, proprio una bella torta di compleanno. Era arrivato il momento di accendere le candeline e far avverare il desiderio, prima che il ghiaccio cominciasse a sciogliersi per effetto del sole.

Leo si voltò per fare cenno ai suoi aiutanti quad di portarsi dietro la barriera protettiva costituita da uno dei moduli abbandonati dell’Habitat che galleggiava lì vicino. Vide che un altro quad stava arrivando a razzo dalla configurazione D-620-Habitat. Leo aspettò un momento perché avesse il tempo di raggiungere gli altri e potesse andare a ripararsi. Non si trattava certo di un messaggero, perché c’era la radio della tuta…

— Falve, Leo — disse la voce di Tony distorta dall’interfono. — Mi fpiace di effere in ritardo sul lavoro… me ne avete lasciato un po’?

— Tony!

Non era facile abbracciare qualcuno infagottato in una tuta, ma Leo fece del suo meglio. — Sei arrivato giusto in tempo per la parte migliore, ragazzo! — disse Leo eccitato. — Ho visto la navetta atterrare qualche istante fa. — Già, e aveva preso un bello spavento, pensando per un attimo che si trattasse della Sicurezza che Van Atta aveva minacciato di inviare, finché non aveva correttamente identificato il velivolo. — Pensavo che il dottor Minchenko ti permettesse di andare solo in infermeria. Silver sta bene? Tu non dovresti riposare?

— Fta bene. Il dottor Minchenko aveva un mucchio di cofe da fare; Claire e Andy dormono, fono andato a vederli, ma non ho voluto fvegliare il bambino.

— Sei sicuro di sentirti bene, figliolo? Hai una strana voce.

— Mi fa male la bocca, ma non importa.

— Ah! — Con poche parole, Leo lo mise al corrente di quello che stavano facendo. — Sei arrivato per il gran finale.

Leo sollevò la tuta quel tanto che bastava per vedere al di sopra del modulo abbandonato. — Quello che vedi in quella scatola lassù in cima, che sembra la ciliegina sulla glassa, è un condensatore di carica con una capacità di duemila volt. Conduce a un filamento piazzato nel liquido esplosivo: ho usato il filamento a incandescenza di una lampadina togliendogli il rivestimento di polivetro; quello che sporge è l’occhio elettronico tolto dal controllo di una porta. Quando lo colpiamo con una scarica di questo laser ottico, chiude l’interruttore…

— E l’elettricità fa faltare l’efplofivo?

— Non esattamente. L’alta tensione che si riversa nel filamento lo fa letteralmente esplodere, ed è l’onda d’urto che innesca la benzina e il TNM. Questo a sua volta fa esplodere la lastra di titanio, mandandola a colpire lo stampo di ghiaccio, dopo di che il titanio si blocca e il ghiaccio, be’, assorbe la spinta. Tutto sommato, è abbastanza spettacolare, ed è per questa ragione che ci siamo nascosti dietro il modulo… — si voltò per controllare la squadra. — Tutti pronti?

— Se tu puoi alzare la testa per guardare, perché noi non possiamo farlo? — si lamentò Pramod.

— Io devo prendere la mira per il laser — rispose Leo con sussiego.

Prese accuratamente la mira con il laser ottico, ma poi si fermò un attimo in preda all’ansia. Tante cose potevano andare male… aveva controllato e ricontrollato più volte, ma poi viene il momento in cui si devono abbandonare tutti i dubbi e passare all’azione. Si raccomandò a Dio e premette il bottone.

Un lampo muto e brillante, una nuvola di vapore ribollente, e la forma di ghiaccio esplose in mille frammenti che schizzarono in ogni direzione. L’effetto era davvero affascinante. Con uno sforzo, Leo distolse lo sguardo e abbassò in fretta la testa dietro il modulo. Sulla retina continuava a danzare l’immagine color verde e magenta. Le mani ricoperte dai guanti, che erano appoggiate sul rivestimento del modulo, percepirono delle forti vibrazioni quando dei cubi di ghiaccio lanciati a tutta velocità andarono a cozzare contro l’altro lato del modulo e rimbalzarono nello spazio.

Leo rimase piegato in due per qualche istante, fissando Rodeo, ma senza vederlo. — Adesso ho paura di guardare.

Pramod accese i jet e girò intorno al modulo. — È tutto d’un pezzo, comunque. Sta roteando, è difficile vedere quale forma abbia.

Leo inspirò. — Andiamo a prenderlo, ragazzi. E vediamo com’è.

Ci vollero pochi minuti per catturare il pezzo. Leo si rifiutava di chiamarlo «riflettore di vortice», perché infatti poteva ancora rivelarsi un pezzo di metallo inservibile. I quad fecero scorrere i vari rivelatori sulla superficie grigia ricurva.

— Non trovo fratture, Leo — disse Pramod ansimando. — In alcuni punti è troppo spesso di qualche millimetro, ma in nessun punto è troppo sottile.

— Lo spessore possiamo eliminarlo durante la lucidatura finale col laser. Se fosse troppo sottile, non potremmo porvi rimedio, preferisco che sia spesso — rispose Leo.

Bobbi passò e ripassò il laser ottico sulla superficie curva, controllando le letture che apparivano sul display. — È nei parametri! Leo, è nei parametri! Ce l’abbiamo fatta!

Lo stomaco di Leo sembrava un ammasso di cera sciolta. Esalò un lungo e stanchissimo sospiro di felicità. — Va bene, ragazzi, portiamolo dentro. Al… al… dannazione, non possiamo continuare a chiamarlo Riconfigurazione D-620-Habitat.

— Ah, no di certo.

— E allora che nome gli diamo? — Un ventaglio di possibili definizioni guizzò nella mente di Leo:… L’Arca… La Stella della Libertà… La Follia di Graf…

— Casa — disse Tony dopo un momento, — andiamo a casa, Leo.

— Casa. — Leo soppesò quel nome sulla punta della lingua: aveva un sapore gradevole, anzi un ottimo sapore. Pramod accennò di sì e Bobbi batté sul casco salutando la scelta.

Leo ammiccò. Senza dubbio era qualche irritante vapore infiltratosi nella tuta che gli faceva lacrimare gli occhi e gli opprimeva il petto. — Sì, ragazzi, portiamo a casa il nostro riflettore di vortice.

Bruce Van Atta si fermò nel corridoio antistante l’ufficio di Chalopin al Porto Tre, cercando di riprendere fiato e di controllare il tremito che lo scuoteva. Sentiva anche una fitta in un fianco. Non sarebbe stato per nulla sorpreso se tutto quel pasticcio gli avesse fatto venire un’ulcera. Il recente fiasco sul lago asciutto lo aveva mandato su tutte le furie. Preparare la strada per lasciare poi che dei subordinati combinassero pasticci e rovinassero tutto… era assolutamente esasperante.

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