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CAPITOLO DODICESIMO

Leo si sfilò la tuta in mezzo a un coro di lamentele proveniente dai quad agitati.

— Che cosa vuol dire, non li abbiamo presi tutti? — domandò, sentendo svanire l’euforia. Aveva tanto sperato che i suoi guai, o almeno quella parte che riguardava i terricoli, sarebbe finita con l’accensione delle cariche che avevano staccato il Modulo Conferenze C.

— Quattro supervisori sono chiusi nel frigorifero degli ortaggi: hanno i respiratori e si rifiutano di uscire — riferì Sinda, dell’Alimentazione.

— E i tre uomini dell’equipaggio del traghetto che è appena attraccato hanno cercato di tornare alla loro nave — disse un quad con la maglietta gialla del dipartimento Stive e Portelli. — Li abbiamo intrappolati fra due portelli stagni, ma si sono messi ad armeggiare sui comandi di apertura, e non penso che potremo tenerli buoni ancora a lungo.

— Il signor Wyzak e alcuni supervisori dei sistemi di supporto vitale si sono, ehm, legati alle maniglie delle pareti nella Centrale Sistemi — riferì un altro quad vestito di giallo, aggiungendo, in tono agitato, — il signor Wyzak è certamente pazzo!

— Tre madri del nido si sono rifiutate di lasciare i loro piccoli — disse una ragazza più grande con la divisa rosa. — Sono ancora nella palestra con tutti gli altri piccoli. Sono molto turbati. Nessuno aveva detto loro che cosa stava succedendo, almeno fino a quando io sono rimasta là.

— E poi, ehm, c’è un’altra persona — si intromise in tono incerto Bobbi, della squadra saldatura e giunture. — Non sappiamo cosa fare di lui…

— Tanto per cominciare, immobilizzatelo — disse Leo stancamente. — Dovremo adattare una capsula di salvataggio per raccogliere gli sbandati.

— Potrebbe non essere facile — disse Bobbi.

— Siete superiori di numero. Prendi dieci, venti uomini, e tutte le possibili precauzioni… è armato?

— Non esattamente — ammise Bobbi, che sembrava provare un interesse particolare per le unghie delle sue mani inferiori. L’equivalente quad dello strascichio imbarazzato dei piedi, si rese conto Leo.

— Graf! — tuonò una voce autoritaria quando si aprirono le porte stagne all’estremità dello spogliatoio. Il dottor Minchenko si lanciò attraverso il modulo, andando a fermarsi con un tonfo accanto a Leo e sferrando un pugno all’armadietto, quasi a sottolineare il suo stato d’animo. Dopo tutto, in assenza di peso, non si potevano pestare i piedi per terra. Il respiratore inutilizzato che gli pendeva da una mano oscillò e tremò visibilmente. — Che cosa diavolo sta succedendo, qui? Non c’è nessuna maledetta depressurizzazione… — e respirò profondamente come a provare quell’affermazione.

La ragazza di nome Kara, con la maglietta e i pantaloncini bianchi della Sezione Medica, lo aveva seguito con un’espressione mortificata sul volto. — Mi spiace, Leo — si scusò, — non siamo riusciti a smuoverlo.

— Dovevo andare a rinchiudermi in qualche sgabuzzino mentre tutti i miei quad morivano per asfissia? — le domandò indignato. — Per chi mi hai preso, ragazza?

— Praticamente tutti gli altri lo hanno fatto — fu l’esitante spiegazione.

— Codardi, canaglie… idioti - sbottò Minchenko.

— Hanno seguito le istruzioni del computer in caso di emergenza — disse Leo. — Perché lei non lo ha fatto?

Il dottore lo fulminò con lo sguardo. — Perché tutta questa faccenda puzza. Una perdita di pressione in tutto l’Habitat dovrebbe essere praticamente impossibile. Dovrebbe verificarsi una incredibile serie di coincidenze.

— Ma eventualità del genere accadono — rispose Leo, parlando dall’alto della sua esperienza. — Il mio campo è appunto questo.

— Appunto — rispose Minchenko con voce suadente, socchiudendo le palpebre. — E quel delinquente di Van Atta l’aveva indicata come il suo ingegnere di fiducia, invitandola a venire qui. Francamente, avevo pensato… — la sua espressione era solo leggermente imbarazzata, — che lei fosse il suo esecutore materiale. L’incidente giungeva troppo opportuno in un momento come questo, dal punto di vista di Van Atta, per non risultare sospetto, ed è stata la prima cosa a cui ho pensato.

— Grazie — ringhiò Leo.

— Conoscevo Van Atta… non conoscevo lei. — Minchenko si interruppe e poi riprese in tono più gentile, — e ancora non la conosco. Che cosa crede di fare?

— Non è ovvio?

— Non del tutto, no. Oh, certo, potrete resistere nell’Habitat per qualche mese, tagliati fuori da Rodeo… magari anche per anni, escludendo che vi sia qualche contrattacco, se saprete risparmiare e se sarete molto in gamba, ma dopo? Qui non c’è un’opinione pubblica che possa precipitarsi a mettervi in salvo, nessun pubblico a fare il tifo per voi. È una follia, Graf. Non avete fatto piani per procurarvi degli aiuti…

— Noi non chiediamo aiuto. Saranno i quad a salvare se stessi.

— Come? — chiese Minchenko in tono sarcastico, anche se una luce di interesse gli illuminò lo sguardo.

— Faranno compiere un balzo all’Habitat. Poi continueranno a viaggiare.

Minchenko era senza parole. — Oh…

Leo riuscì finalmente ad infilarsi la tuta rossa e trovò l’attrezzo che stava cercando. Puntò la saldatrice laser al torace di Minchenko. Quello non era un compito che poteva delegare ai quad. — E lei — disse in tono duro, — andrà alla Stazione di Trasferimento nella capsula di salvataggio con gli altri terrestri. Avanti.

Minchenko non degnò di un’occhiata la saldatrice, le sue labbra si piegarono in una smorfia di disprezzo per l’arma e, così parve a Leo, per colui che la brandiva. — Non sia più stupido del necessario, Graf. So che sono riuscite a farla in barba a quel cretino di Curry, per cui ci sono almeno quindici ragazze incinte, qui. Senza contare i risultati degli esperimenti non autorizzati, che, a giudicare dal modo in cui sta diminuendo il numero dei preservativi nel cassetto nel mio ufficio, cominciano a essere significativi.

Kara aveva un’espressione costernata e colpevole, e Minchenko aggiunse, rivolto proprio a lei: — Perché pensi che te li abbia fatti notare, mia cara? Sia come sia, Graf — e rivolse a Leo uno sguardo fermo, — se lei mi manda via, cosa farà quando una di loro arriverà al momento del travaglio con una placenta praevia? O le si presenterà un prolasso uterino post-parto? O per qualunque altra emergenza medica che richieda qualcosa di più di un semplice cerotto?

— Be’… ma… — Leo era stato colto alla sprovvista. Non aveva la più pallida idea di che cosa fosse una placenta praevia, ma era quasi sicuro che non si trattasse di un’espressione medica per definire un’unghia incarnita. Non che una spiegazione precisa del termine avrebbe dissipato la tremenda ansia che sentiva nascere dentro di sé. Certamente vi erano delle probabilità che tutto questo potesse accadere, date le alterazioni anatomiche dei quad. — Non c’è altra scelta. Restare qui significa la morte per tutti gli altri quad. Andarsene rappresenta una possibilità, non una garanzia, di sopravvivere.

— Ma avete bisogno di me — ribatté Minchenko.

— Lei deve… che cosa? — Leo non riuscì a proseguire.

— Avete bisogno di me. Non potete liquidarmi — gli occhi di Minchenko si posarono per un frazione di secondo sulla saldatrice.

— Be’… — balbettò Leo, — non posso certo sequestrarla.

— E chi glielo sta chiedendo?

— Lei, mi sembra… — si schiarì la voce. — Senta, non credo che lei abbia capito. Io porterò via questo Habitat, e non torneremo più indietro, mai più. Ce ne andremo il più lontano possibile, al di là di ogni mondo abitato. È un biglietto di sola andata.

— Mi sento più sollevato. Per un attimo avevo pensato che volesse tentare qualche pazzia.

Leo si sentì invadere da emozioni contrastanti, sospetto, gelosia?… un senso di grande aspettativa… che sollievo sarebbe stato non dover portare da solo tutto il peso. — Ne è sicuro?

— Sono i miei quad… — Minchenko strinse i pugni e subito li riaprì. — Miei e di Daryl. Non credo che lei abbia la minima idea del lavoro che abbiamo fatto. È stato un buon lavoro, creare questa gente. Sono perfettamente adattati al loro ambiente. Superiori in tutto. Trentacinque anni di lavoro… e dovrei lasciare che un perfetto sconosciuto li trascini per la Galassia verso chissà quale destino? E poi, la GalacTech mi avrebbe mandato in pensione tra un anno.

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