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Bannerji spalancò gli occhi. Le informazioni riguardo all’Habitat erano coperte dal massimo segreto, ma nessuno poteva lavorare su Rodeo per un po’ senza venire a sapere che lassù, in un prudente isolamento, era in corso qualche tipo di esperimento genetico sugli esseri umani. Generalmente, i nuovi assunti scoprivano un po’ in ritardo che le strampalate storie di mostri che si raccontavano lassù erano solo una presa in giro. Bannerji era stato trasferito su Rodeo solo un mese prima.

Le parole del capo del progetto echeggiarono nel cervello di Bannerji. Fuggiti. CATTURATI. I criminali fuggivano. Gli animali pericolosi fuggivano dallo zoo quando i loro guardiani si distraevano, e allora il compito di catturarli ricadeva su qualche povero poliziotto. Ogni tanto, sfuggivano al controllo anche delle tremende armi biologiche. Con che diavolo aveva a che fare, lui?

— Come faremo a riconoscerli, signore? Hanno l’aspetto — Bannerji deglutì, — di esseri umani?

— No. — Van Atta dovette leggere lo sconcerto sul volto di Bannerji perché sbuffò ironicamente. — Le assicuro, capitano, che non avrà difficoltà a riconoscerli. E quando li avrà trovati, mi chiami subito sul mio codice privato. Non voglio che la cosa filtri sui canali ufficiali. Per amor del cielo, tenga la cosa riservata, mi ha capito?

Bannerji provò un attimo di panico. — Sissignore, capisco perfettamente.

Il suo panico era una faccenda privata. Non avrebbe ricevuto un pingue salario se il lavoro nella Sicurezza si fosse limitato a lunghe pause per il caffè e a piacevoli ronde notturne a guardia di proprietà assolutamente deserte. Aveva sempre saputo che un bel giorno avrebbe dovuto guadagnarsi la paga.

Van Atta interruppe la comunicazione con un secco cenno del capo. Bannerji inoltrò una chiamata per il suo subordinato e ordinò di rintracciare anche i due uomini che erano fuori servizio. Una faccenda che faceva sudare freddo i pezzi grossi non andava presa alla leggera da un addetto alla sicurezza di fresca nomina.

Aprì l’armadietto delle armi e firmò il registro di prelievo per sé e per i suoi uomini. Con aria pensosa, soppesò uno storditore nel palmo della mano. Era un aggeggio tanto piccolo e leggero, quasi un giocattolo; la GalacTech non rischiava certo azioni legali per i colpi fortuiti che potessero partire da armi come quelle.

Bannerji restò un attimo incerto, poi tornò alla sua scrivania e aprì il cassetto digitando il suo codice personale. La pistola fuori ordinanza riposava nella custodia, con la fondina avvolta intorno ad essa come un serpente addormentato. Quando Bannerji l’ebbe sistemata sotto la giacca si sentì molto meglio. Si voltò con piglio deciso a salutare i suoi uomini che prendevano servizio.

CAPITOLO QUINTO

Leo si fermò fuori dalla porta a tenuta stagna che conduceva all’infermeria e si fece coraggio prima di entrare. Aveva provato un certo sollievo quando la frenetica chiamata di Pramod lo aveva sottratto al penoso interrogatorio di Silver e si vergognava un po’ di quella sensazione. Il problema di Pramod con i livelli di potenza instabili nella saldatrice a raggi, che come si scoprì in seguito era dovuto all’avvelenamento del catodo di emissione di elettroni a causa di contaminazione da gas, lo aveva tenuto occupato per un po’, ma quando lo show della saldatura era terminato, un senso di vergogna lo aveva di nuovo trascinato lì.

E cosa pensi di poter fare per lei, adesso? lo beffò la sua coscienza. Assicurarle il tuo incrollabile appoggio morale finché questo non ti coinvolge in qualcosa di sconveniente o sgradevole? Che conforto. Scosse il capo e premette il pannello di apertura della porta.

Passò in silenzio davanti alla postazione dell’infermiere di servizio, senza farsi registrare. Silver era in un cubicolo privato, uno spicchio della circonferenza dell’infermeria all’estremità più lontana del modulo. La distanza aveva attutito le grida e i pianti.

Leo scrutò attraverso la finestrella. Silver era sola, galleggiava immobile nell’amaca sistemata sulla parete. Alla luce delle lampade fluorescenti il suo viso aveva un colore verdastro, pallido e sudato. Gli occhi avevano perso il loro brillante luccichio azzurro, ed erano solo due puntolini appannati color piombo. Un sacchetto d’emergenza, spiegazzato ma non ancora usato, era stretto in una delle mani superiori.

Provando un certo malessere, Leo gettò un’occhiata nel corridoio per accertarsi che la sua presenza non fosse ancora stata notata, cercò di soffocare un moto di rabbia impotente e scivolò all’interno.

— Oh… ciao, Silver — esordì con un piccolo sorriso. — Come stai?

Gli occhi appannati lo guardarono dapprima senza riconoscerlo, poi: — Oh, Leo. Penso di essermi addormentata… per un po’. Ho fatto degli strani sogni… mi sento ancora male.

La droga stava esaurendosi. La sua voce non era più impastata e sognante come lo era stata durante l’interrogatorio; adesso era sottile, tesa e consapevole. Con un tremito di indignazione, Silver aggiunse: — Quella roba mi ha fatto vomitare. E non mi era mai capitato prima d’ora, mai. È stato terribile.

Leo aveva scoperto che c’erano fortissime inibizioni sociali contro il fatto di vomitare in assenza di peso nel piccolo mondo di Silver. Probabilmente lei si sarebbe sentita molto meno imbarazzata a spogliarsi in pubblico.

— Non è stata colpa tua — si affrettò a rassicurarla.

Lei strinse le labbra e scosse il capo, e i capelli fluttuarono intorno a lei in ciocche scomposte e spente, per nulla simili alla lucente aureola di sempre. — Avrei dovuto… credevo di poter… il Ninja Rosso non ha mai raccontato i suoi segreti ai suoi nemici, eppure loro lo torturavano e lo drogavano!

— Chi? — chiese stupito Leo.

— Oh…! — la voce di Silver si trasformò in un lamento. — E sono anche venuti a sapere dei nostri libri! Questa volta li troveranno tutti… — Aveva le ciglia imperlate di lacrime che non potevano cadere, ma solo accumularsi finché non venivano asciugate. Quando spalancò gli occhi per fissare Leo, colta da un’improvvisa consapevolezza, due o tre goccioline schizzarono via lungo scintillanti tangenti. — E adesso il signor Van Atta pensa che Ti fosse al corrente del fatto che Claire e Tony si trovassero sulla navetta… collusione… ha detto che avrebbe fatto licenziare Ti! Troverà Tony e Claire… e non so cosa gli farà. Non ho mai visto il signor Van Atta così arrabbiato.

Leo strinse la mascella e il suo sorriso si trasformò in una smorfia, ma cercò lo stesso di parlare in tono ragionevole. — Ma sicuramente, sotto l’effetto della droga, gli avrai detto che Ti non lo sapeva.

— Lui non mi ha creduto. Ha detto che stavo mentendo.

— Ma sarebbe un controsenso… — cominciò Leo, e poi si interruppe. — No, hai ragione, questo non lo turberebbe affatto. Dio, che asino.

Silver spalancò la bocca, sconvolta. — Vuoi dire… il signor Van Atta?

— Sì, proprio quell’asino. Non vorrai dirmi che dopo essere stata con quell’uomo per… undici mesi, non te n’eri mai accorta.

— Pensavo che fosse colpa mia… che qualcosa non andasse in me… — la voce era ancora lacrimosa e soffocata, ma negli occhi cominciava a baluginare una luce. Riuscì a superare il suo dolore quanto bastava per fissare Leo con rinnovato interesse.

— Uh… — Il ricordo di una delle lezioni della dottoressa Yei sulla necessità di mantenere di un’autorità salda e coerente lo costrinse a tacere. — Lascia perdere. Ma non c’è nulla di sbagliato in te, Silver.

Il suo interesse aveva assunto un risvolto quasi scientifico. — Tu non hai paura di lui — e il tono meravigliato indicava che quella per lei era una scoperta inaspettata e straordinaria.

— Io? Paura? Di Bruce Van Atta? — sbuffò Leo. — Nient’affatto.

— Quando è arrivato qui a prendere il posto del dottor Cay, io ho pensato… ho pensato che sarebbe stato come il dottor Cay.

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