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Ora la fusione era visibile, il metallo si stava trasformando in una massa fluida bianca e ardente che galleggiava nel vuoto, cercando di assumere la forma di una sfera perfetta. Ragazzi, quella roba sarà purissima quando avremo finito, rifletté soddisfatto Leo.

Controllò gli strumenti. Ora si stavano avvicinando al momento critico in cui era necessario dare un giudizio: quando fermarsi? Dovevano riversare abbastanza energia per raggiungere una fusione uniforme, insomma, niente grumi nella salsa. Ma non dovevano neppure esagerare: anche se in quel momento non si vedeva, Leo sapeva che da quella bolla stava uscendo vapore di metallo, già prevista come perdita calcolata.

Ma soprattutto bisognava tener conto del passo successivo: ogni chilocaloria che veniva riversata dentro la massa di titanio, doveva anche venir estratta. A terra, la sagoma che stava cercando di ottenere sarebbe stata formata con uno stampo di rame, con litri e litri di acqua che avrebbero ridotto il calore al ritmo desiderato, in questo caso, rapidamente; raffreddamento a scroscio monocristallino, veniva chiamato. Be’, almeno lui aveva scoperto come ottenere lo scroscio…

— Cessare il fuoco — ordinò Leo.

Ed eccola là, sospesa in aria, la loro sfera di metallo fuso, bianco-azzurra per il calore che racchiudeva, perfetta. Leo controllò più volte che fosse perfettamente centrata e ordinò al laser numero due di emettere una scarica di mezzo secondo, non per fondere, ma per correggere la posizione.

— Va bene — disse nel comunicatore del casco. — Adesso ripuliamo questo modulo da tutto il superfluo e ricontrolliamo quello che deve restare qui. L’ultima cosa che vogliamo adesso è che qualcuno lasci cadere una chiave inglese nella pentola della zuppa, vero?

Senza troppe cerimonie, Leo e i quad spinsero l’equipaggiamento attraverso i fori che avevano aperto sul fianco del modulo. Due degli operatori laser lo seguirono, e gli altri due rimasero con Leo, che ricontrollò ancora la centratura e poi tutti e tre si legarono alle pareti.

Leo cambiò il canale del comunicatore. — Pronta, Zara? — chiese.

— Pronta, Leo — rispose il pilota dal suo rimorchiatore che in quel momento era agganciato alla poppa sventrata del modulo.

— Allora mi raccomando: con mano leggera e delicata. Ma con estrema decisione. Fingi che il tuo rimorchiatore sia un bisturi e che tu sia sul punto di operare uno dei tuoi amici.

— Bene, Leo. — C’era un’ombra nella sua voce e Leo pregò fervidamente tra sé: non cedere, ragazza.

— Vai, quando sei pronta.

— Accensione. Tenetevi stretti!

Da principio non vi fu alcun cambiamento percettibile, poi le cinghie di Leo si tesero. Era il modulo dell’Habitat che si muoveva, non la palla di metallo fuso, ricordò Leo a se stesso. Il nucleo di metallo non si era mosso, ed era invece la parete posteriore che si era spostata in avanti, quasi sul punto di avvolgerlo.

Funzionava, per Dio, funzionava! La bolla di metallo sfiorò la parete e si sparse nello stampo cavo.

— Aumentare l’accelerazione al primo grado — disse nel comunicatore. Il rimorchiatore aumentò la velocità, il cerchio di metallo fuso si allargò, e gli orli raggiunsero il diametro desiderato di tre metri, mentre l’incandescenza diminuiva, creando una lastra di titanio dello spessore voluto, pronto (dopo il raffreddamento) a venir modellata nella sua sottile forma finale.

— Continua così! Ci siamo.

Raffreddamento a scroscio? Be’, non esattamente. Leo era fastidiosamente conscio del fatto che probabilmente non sarebbero riusciti a ottenere un perfetto raffreddamento interno monocristallino. Ma gli bastava che non dovessero fonderlo di nuovo per ricominciare daccapo… era tutto quello che osava sperare. Avevano appena il tempo sufficiente per costruire uno di quegli affari, certamente non due. E quando sarebbe arrivata la temuta risposta da Rodeo? Molto presto, certamente.

Si chiese brevemente che cosa avrebbero fatto le nuove tecnologie di gravità artificiale di fronte a simili problemi di fabbricazione nello spazio. Rivoluzionario era certo un termine troppo blando. Peccato che non potessimo sfruttarle proprio ora, pensò. Ma se la stavano cavando benissimo, pensò, e sorrise al riparo del casco.

Puntò il termometro verso la parete posteriore: il pezzo stava raffreddandosi con la rapidità sperata. Ci sarebbero volute altre due ore di attesa prima che il calore fosse diminuito abbastanza per poter togliere il metallo dalla parete e maneggiarlo senza rischiare di deformarlo.

— Va bene, Bobbi, lascio il comando a te e Zara — disse Leo. — Procede bene. Quando la temperatura scenderà attorno ai cinquecento gradi, riportatelo indietro. Saremo pronti per il raffreddamento finale e la seconda fase della sagomatura.

Con cautela, cercando di non causare eccessive vibrazioni alle pareti, Leo slacciò le cinghie e si diresse verso l’uscita. Da lontano si godeva una bellissima vista della supernave, ora carica per oltre metà, e di Rodeo sullo sfondo. Era meglio andare, adesso, prima che la distanza superasse quella che i suoi retrorazzi erano in grado di coprire.

Attivò i razzi e si allontanò rapidamente dal fianco dell’unità rappresentata dal modulo e dal rimorchiatore che continuavano ad accelerare dolcemente. Procedeva a rilento, con l’aspetto di un relitto ubriaco e assemblato a casaccio, ma al suo interno ardeva una grande speranza.

Leo si diresse verso l’Habitat e la Fase Due del suo progetto-riparazione-astronave-mentre-si-aspetta.

Era giunta l’ora del tramonto sull’arida distesa del lago prosciugato. Silver fissò con ansia il monitor che continuava a scandagliare l’orizzonte, illuminandosi e oscurandosi ogni volta che raggiungeva e poi superava la palla infuocata del sole.

— Ci vorrà almeno un’altra ora prima che siano di ritorno — le fece notare la signora Minchenko che l’aveva osservata, — e questo nel migliore dei casi.

— Non sto cercando loro — rispose Silver.

— Uhm. — Madame Minchenko tambureggiò sulla consolle con le dita segnate dall’età, sganciò il sedile e lo inclinò all’indietro, fissando pensosa il soffitto della cabina. — No, immagino di no. Eppure, se il controllo del traffico della GalacTech vi ha visti atterrare e ha mandato fuori un elijet, a quest’ora avrebbero già dovuto essere qui. Forse, dopo tutto, non si sono accorti del vostro atterraggio.

— Forse invece sono solo disorganizzati — suggerì Silver, — e saranno qui da un momento all’altro.

La signora Minchenko sospirò. — Fin troppo probabile — si voltò a guardare Silver, stringendo le labbra. — E in quel caso, che cosa dovresti fare?

— Sono armata. — Silver sfiorò la saldatrice laser, posata in modo invitante sulla consolle davanti al sedile del pilota nel quale era sdraiata. — Ma preferirei non dover sparare a qualcun altro. Se posso farne a meno.

— Qualcun altro? — C’era un tono di maggior rispetto nella voce della signora Minchenko.

Sparare alla gente era un’attività così stupida, perché tutti dovevano farsi impressionare in quel modo? si chiese irritata. Come se avesse fatto qualcosa di veramente importante, come scoprire una cura per l’annerimento del fusto. Strinse le labbra.

E poi le riapri, sporgendosi in avanti a fissare il monitor. — Oh, oh! Arriva un veicolo terrestre.

— Non sono sicuramente i nostri ragazzi — disse Madame Minchenko con un certo disagio — Che sia andato male qualcosa?

— Non è il suo fuoristrada. — Silver armeggiò con la messa a fuoco. La luce obliqua del sole filtrava attraverso la polvere trasformandola in una cortina di fumo rosso ardente. — Credo… è un veicolo della Sicurezza della GalacTech.

— Oh, cielo. — La signora Minchenko si raddrizzò. — E adesso cosa facciamo?

— Non apriremo i portelli, in nessun caso, qualunque cosa succeda.

Dopo qualche minuto il veicolo si fermò a una cinquantina di metri dalla navetta. Un antenna si innalzò dal tetto e tremolò. Silver accese la radio… che fastidio non avere il pieno uso delle mani inferiori… e richiese al computer la lista dei canali di comunicazione. La navetta sembrava avere accesso ad un numero incredibile di canali. La frequenza audio della Sicurezza era 9999. Silver si sintonizzò.

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