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Gli uomini nella neve giacevano immobili, come morti. L’impellicciata era scomparso.

— Sei vivo? — gridò Anton ansimando.

— Vivissimo, — rispose Vadim. — Ma dov’è il prigioniero?

Vide Saul che avanzava verso di loro a grandi passi, trascinando per il bavero l’uomo in pelliccia.

— Voleva scappare! — annunciò. — Ma avete visto che razza di gente!

— Andiamocene via, — disse Anton.

Si avviarono verso il bioplano, scavalcando con cautela i corpi immobili. Saul tirò per il bavero il prigioniero, rimettendolo in piedi, e lo fece camminare spingendolo per la schiena.

— Cammina, carogna! — gli ordinò. — Avanti, grassone! Puzza da asfissiare, — annunciò. — Sarà un anno che non si lava.

Quando arrivarono al bioplano, Anton prese il prigioniero per una spalla e gli indicò la cabina. Quello scosse la testa con un gesto disperato, tanto che gli cadde il berretto. Poi si mise a sedere sulla neve.

— Credi che staremo a fare complimenti! — urlò Saul.

Sollevò il prigioniero per la pelliccia e lo scaricò oltre l’orlo dell’oblò. Il prigioniero cadde fragorosamente sul pavimento della cabina e non si mosse più.

— Puah, — disse Anton, — che razza di lavoro!

Prese i due zaini che stavano accanto al bioplano, e li trascinò fino alla slitta. Aprì lo zaino, tirò fuori tutti gli abiti e li dispose sulla neve. Fece lo stesso con le cibarie. Gli uomini parevano morti e solo piano piano ritiravano le gambe quando Anton passava vicino.

Vadim stava appoggiato stancamente ad una fiancata tiepida dell’apparecchio e guardava la neve sconvolta, la slitta rovesciata, i corpi contorti sotto la luce della luna. Senti Anton che diceva con voce tetra:

— Commissione per le Relazioni, dove sei?

Vadim si toccò il fianco. Il sangue scorreva ancora. Si sentì percorrere da un’ondata di debolezza e sofferenza ed entrò in cabina. Era andato tutto storto, tutto sbagliato. Il prigioniero giaceva bocconi, cingendosi la testa con le mani. A quanto pare si aspettava la morte e forse anche la tortura. Su di lui torreggiava Saul, che seguiva con aria feroce ogni suo movimento. Rientrò Anton e si infilò anche lui nella cabina.

— Che hai? — chiese.

Vadim parlava con difficoltà:

— Sai Toška, mi hanno ferito. Ora non sono più in grado di far niente.

Anton lo fissò per qualche secondo.

— Su, dài, spogliati, — ordinò.

— Bah! — brontolò con rabbia Saul.

Vadim si sbottonò il giubbotto. Aveva le vertigini e di quando in quando la vista gli si oscurava. Vide la faccia concentrata di Anton e la faccia addolorata di Saul. Poi sentì delle dita fredde che gli palpavano il fianco.

— L’ha accoltellato, — disse Saul. La sua voce pareva giungere da un’altra stanza. — Lei non ci ha proprio saputo fare. Io l’avrei preso con una mano sola.

— Non è stato lui, — balbettò Vadim. — È stato un altro… Un uomo nudo…

— Un uomo nudo? — disse Saul. — Questo non lo capisco nemmeno io.

Anton rispose qualcosa ma davanti agli occhi di Vadim guizzavano barbagli e cerchi luminosi ed egli perse i sensi.

VI

— Guardi, Anton, — disse Saul. — Anton! È svenuto, vede?

— Dorme, — rispose Anton, osservando attentamente la ferita. La ferita era sfilacciata e piuttosto profonda. La spada aveva colpito sotto le costole, e si era insinuata fra i fasci muscolari. Anton sospirò di sollievo. Saul, che gli stava alle spalle, sussurrò ansando:

— È grave?

— No, è una sciocchezza, — disse Anton. — Fra un’ora starà bene. — Scostò Saul. — Si sieda, per favore.

Saul rioccupò la sua poltrona e si mise a fissare con rabbia il prigioniero immobile. Anton aprì senza fretta uno zaino, tirò fuori un barattolo di colloide e ne spalmò sulla ferita una porzione abbondante. La pomata arancione divenne subito rosa, e si coprì di grinze rosee come la panna sul latte. Ecco il sangue, pensò Anton.

Dimka ha una salute di ferro! Guardò il volto di Vadim. Era un po’ più pallido del solito, ma calmo e disteso, come soleva esserlo nel sonno. E respirava, come sempre, col naso, profondamente e silenziosamente. Anton posò le dita ai lati della ferita e chiuse gli occhi.

Ogni pilota spaziale era tenuto ad apprendere i primi elementi di psicochirurgia. Praticamente ogni pilota sapeva incidere e ricucire il tessuto vivo, utilizzando la risonanza psicodinamica. Ciò richiedeva molta tensione e concentrazione. Negli ospedali si adoperavano i generatori neuronici, ma durante le spedizioni il pilota doveva valersi dei suoi soli mezzi mentali, come un antico stregone. Ogni volta Anton provava compassione per gli stregoni.

Sentì come in sogno che alle sue spalle Saul si agitava sospirando ed il prigioniero borbottava qualcosa fra i singhiozzi. Dal prigioniero veniva uno sgradevole odore acre che riempiva la cabina.

Anton aprì gli occhi. La ferita si era chiusa, spremendo fuori il colloide, ora c’era soltanto una cicatrice rosea. Basta così, pensò Anton. Altrimenti non riuscirò a guidare il bioplano. Era tutto bagnato.

— Ho finito, — disse, tirando il fiato.

Saul si alzò e guardò la ferita.

— Chi ci capisce è bravo, — brontolò. — Ma come ha fatto?

Anton si guardò intorno e sussultò. Dall’esterno, attraverso l’oblò, lo fissavano delle facce orribili, magre, dalle guance incavate e dalle labbra arricciate sui denti. Ispiravano una paura atavica, come morti che si fossero levati a dare un’occhiata dentro le case dei vivi. Anton si sentì percorrere da un brivido. Saul inarcò le sopracciglia folte e minacciò col dito. Mani ossute cominciarono a battere senza rumore sulla cappotta.

— Andate a casa! A casa! — disse forte Saul.

Anton cominciò a rivestire Vadim.

— Ora decolliamo, — disse.

— Li ammazzerete tutti.

Anton scosse la testa e occupò il sedile di primo pilota. Il bioplano vibrò e cominciò a sollevarsi lentamente. Le facce all’esterno scomparvero. Una lunga mano scheletrica dalle unghie rotte scivolò sul finestrino e scomparve a sua volta.

Girato il bioplano in direzione dell’astronave, Anton accelerò. Aveva fretta. Era già mezzanotte.

— Cosa ci avranno trovato in lui? — borbottava Saul. — È un nazista, un animale, l’ho visto io stesso come punzecchiava quegli uomini con la picca per farli andare più in fretta.

Anton taceva.

— Oh Signore! — esclamò Saul. — È pieno di bestiacce.

— Di che cosa?

— Di pidocchi, direi. Per prima cosa bisognerà lavarlo e disinfettare tutto…

Eccone ancora una, pensò Anton. Saul, come se indovinasse i suoi pensieri, aggiunse:

— Non si preoccupi, lo farò io. Speriamo che non crepi di paura quando farà il suo primo bagno.

Anton guidava il bioplano alla velocità massima, tenendosi a cento metri di quota. La piccola luna bianca si trovava quasi allo zenit, la falce rossa della seconda luna era già tramontata, ed un terzo satellite, roseo e piatto, si stava levando sull’orizzonte bianco. Vadim si scosse, sbadigliò rumorosamente e borbottò: — Mi hai curato? — e di nuovo si addormentò.

— Che cosa sta facendo? — chiese Anton. Era tanto stanco che non aveva voglia di voltarsi.

— Chi?

— Il prigioniero.

— Sta sdraiato. Puzza. Da parecchio non sentivo un puzzo simile…

Da un pezzo, pensò Anton. A me non è mai capitato di sentirlo. E ne avrei volentieri fatto a meno… Saul ha ragione: avevano fatto male ad invischiarsi in quella storia. Saul è in gamba. Si trattava veramente di un sistema. Era il sistema dello schiavismo. Schiavi e padroni. Però io avevo sempre pensato che gli schiavi devoti si incontrassero solo nei libri dozzinali… Lo schiavo devoto. Che schifo! Va bene, però ormai è fatta, per tirarsi indietro è tardi e faremmo anche la figura degli sciocchi. Se non altro scopriremo come stanno le cose. Sì, ma non era quello l’essenziale… Anche se avessi capito subito che cosa sta succedendo qui, non avrei certo potuto voltare le spalle… alla conca, dove le macchine schiacciavano gli uomini… a quel villaggio sudicio… Interessante, avrebbe tollerato il Consiglio Mondiale l’esistenza di un pianeta basato sullo schiavismo? Sentì improvvisamente tutta l’enormità del problema. Finora questa alternativa non si era mai presentata: si poteva o no intervenire nelle sorti di un altro pianeta? Gli abitanti di Leonida e di Tagora erano troppo diversi dagli uomini. La psicologia dei Leonidiani era ancora un mistero, e nessuno poteva dire quale fosse il regime sociale sul loro pianeta… Quanto agli umanoidi di Tagora, avevano da chiedere tanto poco alla natura, che non si capiva come avessero fatto a sviluppare la loro tecnica… Ma qui, su Saul, il problema era completamente diverso. Non c’era nessun altro posto in cui i rapporti sociali assumessero una forma tanto mostruosa e tuttavia, a quanto pareva, tanto universalmente accettata. I Sauliani parevano fratelli degli uomini, fratelli ancora molto giovani, immaturi e crudeli… E come se non bastasse ci si mettevano pure quelle stupide macchine degli alieni…

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