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In lontananza, sulla piana azzurra comparve un puntolino nero. Ecco l’astronave, pensò Anton. E lì accanto, sotto la neve, c’erano i morti. Che strano, è passato appena un giorno e già mi sono abituato. Come se tutta la vita non avessi fatto altro che girare fra cadaveri nudi nella neve. L’uomo si adatta con facilità. Adattamento psicologico. Strano. Forse dipende dal fatto che in fin dei conti non sono uomini. Sulla Terra, sarei già diventato pazzo. No, sarei rimasto intontito…

Diminuendo la velocità, descrisse un cerchio intorno alla navicella.

Vedere il cono nero, che conosceva così bene, lo confortò. L’astronave sulle colline azzurre gettava due ombre dai contorni netti: una breve e nera, l’altra lunga e rossa. Il bioplano atterrò davanti all’entrata. La neve, gelando, aveva formato intorno alla nave un campo di ghiaccio. Anton si voltò verso Vadim e gli diede una manata sul ginocchio.

— Che c’è? — chiese Vadim con voce assonnata.

— Sveglia!

— Lasciami in pace…

— Alzati, Dimka. Siamo arrivati all’astronave.

— Adesso, — disse Vadim, aprendo le labbra con uno schiocco. — Ancora un minuto…

— Gli faccio il solletico? — propose Saul.

Vadim aperse subito gli occhi e si alzò.

— Ah sì, l’astronave… Capisco.

Uscirono sul ghiaccio scivoloso. L’aria gelata mozzava il fiato. Si sentiva Vadim che batteva i denti. Saul afferrò il prigioniero per il bavero. Che starà pensando quel poveretto? si chiese Anton.

— Salite, — disse Saul, — io lo porto direttamente al bagno. Entrarono nell’astronave, chiusero l’oblò e Anton, sospingendo Vadim, sali verso il quadrato. Vadim dormicchiava, battendo i denti. Dal piano inferiore risuonò un urlo terribile del prigioniero. Vadim si riscosse.

— Che cosa gli sta facendo? — chiese allarmato.

— Lo vuole lavare, — spiegò Anton. — È pieno di parassiti.

Si sentì la voce di Saul.

— Cammina con le tue gambe, la fatica non ti ammazzerà…

La porta del bagno sbatté. Anton e Vadim entrarono nel quadrato e si gettarono sulle poltrone.

— Cara, vecchia astronave, — disse Vadim. — Come si sta bene, come è pulita!

Anton stava ad occhi chiusi.

— Ti fa male? — chiese.

— Mi prude…

— Vuoi dire che va tutto bene… Senti, cosa ti occorre per lavorare?

— Il calcolatore, — rispose Vadim. — Metà della sua memoria interna. Entrambi gli analizzatori. Molto caffè per me e qualche leccornia per il prigioniero. Fra un paio d’ore te lo troverai qui davanti a parlare del senso della vita.

Dal piano inferiore giunsero di nuovo grida, rumore di oggetti smossi e scalpiccio di piedi nudi.

— Dove vai? — tuonò Saul. — Vieni qui… Sta’ fermo!

— Com’è bravo a lavarlo, — disse Vadim con ammirazione. — Forse gli è andato un po’ di sapone negli occhi… Però Saul sbaglia il tono della voce. Per il prigioniero gli urli non sono altro che implorazioni. Il tono di comando è questo: — e Vadim, allungato il collo, emise degli insopportabili strilli queruli.

— Sembri un gattino a cui abbiano pestato la coda, — disse Anton.

— Sì, è lo stesso tono!

— Va bene, ti lascerò la sala dei comandi… Ti porterò tutto il necessario.

Vadim lo scrutò con attenzione.

— Ma tu, caro mio, sembri un limone spremuto, — disse.

— Beh, un po’ lo sono… La tua ferita non era grave, ma mi sono stancato. Sai, stanca molto.

— Mettiti a dormire. Me la cavo da solo. Saul mi porterà tutto.

— Non preoccuparti, — disse Anton. — Questo è lavoro mio. Va’ a prepararti, — aggiunse scuotendo una mano.

Vadim si alzò.

— Ti consiglio di dormire un po’, — si avviò verso la sala dei comandi, ma ad un tratto si fermò. — Hanno poi preso i vestiti?

Lì per lì Anton non capì, ma poi disse:

— Per la verità non lo so… Non ricordo… Però erano molto arrabbiati con noi.

— Che razza di pasticcio! — disse Vadim. — Non ci capisco niente. Perché mi ha infilzato con la spada?

Scosse il capo e si diresse verso la sala dei comandi. Anton si addormentò subito. Sognò di essere andato in cucina, di aver preparato molto caffè, di aver portato la caffettiera e le conserve nella sala dei comandi, di essersi sentito dire di levarsi di torno, di essersene andato nella sua cabina e di essersi seduto al tavolino a scegliere il programma del volo di ritorno. Però aveva un gran sonno, e non riusciva a trovare altro che i programmi dei suoi voli precedenti. Poi Saul lo svegliò.

— Ecco, — disse Saul.

Davanti ad Anton c’era un biondino snello in calzoncini e in giubbotto sintetico, dagli occhi neri e spaventati.

— Le piace? — chiese Saul sarcastico.

Anton si mise a ridere.

— È una bella razza, — disse. — Salve, fratello minore.

Il fratello minore lo fissava con occhi tondi di paura. Sembra simpatico, pensò Anton.

— E questo lo aveva sotto la pelliccia, — disse Saul e posò sul tavolo un pacchetto rigido.

Il prigioniero fece per slanciarsi sul pacchetto.

— Altolà, — fece Saul con voce minacciosa. — Di nuovo! Ti faccio vedere io!

Il prigioniero rannicchiò la testa nelle spalle. Evidentemente, era riuscito a capire il tono di voce di Saul. Anton prese il pacchetto, lo guardò e lo aprì. In una busta di ottimo cuoio c’erano un foglio ripiegato varie volte, un disegno e qualche pezzo di cerotto insanguinato.

— Capisce? — disse Saul. — Hanno strappato i cerotti ai feriti.

Anton ricordò gli uomini maciullati e strinse i denti.

— Questo deve essere il rapporto — disse dopo una pausa — sul nostro arrivo. Vadim! — chiamò.

Il prigioniero improvvisamente si mise a parlare. Parlava in fretta, dandosi dei pugni sul petto. Il suo volto esprimeva terrore e disperazione, in strano contrasto con le intonazioni brusche e persino sarcastiche della sua voce. Vadim scese nella sala e si fermò alle spalle del prigioniero, tendendo le orecchie. Il prigioniero tacque e si coprì il volto con le mani.

— Guarda, Vadim, — disse Anton, porgendogli il foglio.

— Oh! — disse Vadim. — Una lettera! Magnifico! Questo ci riduce il lavoro a metà!

Prese il prigioniero per una manica e lo condusse nella sala dei comandi, guardando nel frattempo il foglio. Il prigioniero lo seguì docilmente. Saul studiava attentamente il disegno.

— Non sono uno specialista, — disse infine, — ma, secondo me, è uno schizzo esatto del carro armato che abbiamo ispezionato nella conca. Se lo ricorda?

Passò il disegno ad Anton. Il disegno era stato fatto con molta cura con inchiostro azzurro, ma sulla carta c’erano molte ditate. Era la pianta, probabilmente esattissima, della cabina del veicolo. Alcuni fori erano contrassegnati da rozze crocette rosse, altri erano cancellati. Anton sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Ma guarda, pensò fiacco. Che bei disegni fanno gli schiavisti.

— Senta, capitano, — disse Saul, — vada a dormire. Tanto finché il nostro linguista non avrà finito, qui non c’è bisogno di lei.

— Crede?

— Ne sono sicuro.

La voce di Vadim dalla sala dei comandi ordinò:

— Caffè e marmellata.

— Arriva! — gridò Saul. — Vada Anton, vada.

— Non me ne vado, — disse Anton. — Resterò qui.

Abbassò le palpebre e smise di opporre resistenza. Dormì un sonno inquieto: di tanto in tanto si svegliava e apriva gli occhi. Vide Saul che passava in punta di piedi reggendo in una mano un barattolo vuoto e nell’altra una caffettiera. Vide poi Saul che portava un vassoio nella sala dei comandi, e nel quadrato giunse un odore di pomodoro. Poi Saul sedette al tavolo e si mise a succhiare la pipa vuota, fissando attentamente Anton. Dalla sala dei comandi giungevano voci monotone. «Su-o… Mu-u… Bu-u…» diceva Vadim, e l’analizzatore ripeteva meccanicamente: «Su-a… Ma-a… Bu-a… Lavorare, karosuu… Lavoratore, karobu… Diventare un lavoratore, karomuu…». Anton si addormentava e tornava a svegliarsi. La voce di Vadim aleggiava incomprensibile: «Rupe lucente, grande e possente… idai-hikari… tika — udo…», e la voce stridula del prigioniero correggeva: «Tiko-o… udo-o…». Vadim gridava: «Saul! Caffè!». «E già la terza caffettiera!» Saul borbottava scontento.

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