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— Figuriamoci! — disse Aleksandr B., e si avvicinò il selettore.

Il giornalista Kammerer (e sì, lo confesso, anche io), con un’ammirazione che sconfinava nella venerazione, osservò come quel giovane dall’aspetto delicato di poeta romantico all’improvviso strabuzzasse gli occhi e, storcendo le belle labbra in un’impensata trombetta, cominciasse a gorgheggiare, ad anatrare, a ululare, come trentatré Testoni messi insieme (nella quiete del bosco notturno, accanto a una strada asfaltata disselciata, sotto il cielo opaco e fosforescente di Sarakš), e come questi suoni sembrassero appropriati a quell’ambiente vuoto, con la volta ad arco, le pareti spoglie e ruvide. Poi tacque, chinò il capo e si mise ad ascoltare una serie di schiocchi ed ululati in risposta, ma le sue labbra e la parte inferiore del cranio continuavano a muoversi stranamente, come se lui le tenesse pronte a continuare il colloquio. Era piuttosto sgradevole a vedersi, e il giornalista Kammerer, nonostante tutta la sua ammirazione, ritenne indispensabile distogliere gli occhi per delicatezza.

Del resto il colloquio non durò molto. Aleksandr B. si rilassò sullo schienale della sedia e, massaggiandosi delicatamente la parte inferiore del cranio con le lunghe dita pallide, disse in fretta, quasi soffocando:

— Pare che sia d’accordo. Non vorrei però darle troppe speranze: non sono del tutto sicuro che abbia capito bene. Due livelli di significato li ho capiti, ma mi sembra che ce ne fosse ancora un terzo… In breve, attraversi il ponte, troverà un sentiero che porta nel bosco. Lui le verrà incontro. Cioè, lui la esaminerà… No, come dire… Sa, non è difficile capire la lingua dei Testoni, è difficile tradurla. Come per esempio lo slogan: «Siamo per la conoscenza, ma non per la curiosità». E, fra l’altro, un esempio per una buona traduzione. «Non per la curiosità» si può intendere come «non siamo curiosi inutilmente» oppure come «non guardateci con curiosità». Capisce?

— Capisco, — disse il giornalista Kammerer, scivolando giù dal tavolo. — Lui mi osserverà e deciderà se vale la pena parlare con me. Grazie per il suo aiuto.

— Ma si figuri! Era mio dovere… Aspetti, prenda il mio impermeabile, sta piovendo…

— Grazie, non c’è bisogno, — disse il giornalista Kammerer e uscì sotto la pioggia.

3 giugno dell’anno 78. Ščekn-Itrč, il Testone

Erano circa le tre del mattino, ora locale; il cielo era coperto di nuvole, e il bosco era fitto, e quel mondo notturno mi pareva grigio, piatto e fangoso, come una vecchia fotografia sporca.

Ovviamente, lui mi trovò per primo e, probabilmente, per cinque minuti, forse per dieci, mi seguì per un sentiero parallelo, nascondendosi nel folto sottobosco. Quando finalmente mi accorsi di lui, lui lo capì quasi all’istante e subito si trovò sul sentiero davanti a me.

— Sono qui, — annunciò.

— Lo vedo, — dissi.

— Parliamo qui.

— Va bene.

Si sedette proprio come un cane che parli col suo padrone, un cane grosso, robusto, dal gran testone e le piccole orecchie triangolari ritte, con grandi occhi rotondi sotto l’ampia fronte massiccia. Aveva la voce un po’ rauca, e parlava senza il minimo accento, per cui solo le frasi brevi, spezzettate e la precisione un po’ eccessiva nell’articolare facevano capire che era uno straniero. E ancora: puzzava. Ma non di cane bagnato, come ci si poteva aspettare; era un odore di tipo inorganico, qualcosa di simile alla califolia riscaldata. Uno strano odore, più di un meccanismo che di un essere vivente. Su Sarakš, mi ricordo, i Testoni avevano tutto un altro odore.

— Che cosa vuoi? — chiese.

— Ti hanno detto chi sono?

— Sì. Sei un giornalista. Scrivi un libro sul mio popolo.

— Non è proprio così. Scrivo un libro su Lev Abalkin. Lo conosci.

— Tutto il mio popolo conosce Lev Abalkin. Questa era una novità.

— E cosa ne pensa il tuo popolo di Lev Abalkin?

— Il mio popolo non pensa niente di Lev Abalkin. Lo conosce.

A quanto pare, qui cominciavano le sabbie mobili linguistiche.

— Volevo dire: qual è l’opinione del tuo popolo su Lev Abalkin?

— Lo conosce. Ognuno. Dalla nascita fino alla morte.

Mi consigliai con il giornalista Kammerer e decisi di lasciar perdere questo argomento. Chiesi:

— Che cosa puoi raccontare su Lev Abalkin?

— Niente, — rispose brevemente.

Ecco quello che temevo più di tutto. Lo temevo talmente che nel subconscio avevo respinto persino la possibilità di trovarmi in una tale situazione e vi ero assolutamente impreparato. Mi confusi nel modo più penoso, e lui intanto si portò la zampa anteriore al muso e cominciò a succhiarsela rumorosamente in mezzo alle unghie. Non come fanno i cani, ma piuttosto come fanno i gatti.

Comunque avevo sufficiente autocontrollo. Capii in tempo che, se quel cane sapiens veramente non avesse voluto avere a che fare con me, avrebbe semplicemente rifiutato di incontrarmi.

— So che Lev Abalkin è un tuo amico, — dissi. — Avete vissuto e lavorato insieme. Moltissimi terrestri vorrebbero sapere che cosa pensa di Abalkin il suo amico e collaboratore Testone.

— Perché?

— È un’esperienza.

— Un’esperienza inutile.

— Non esistono esperienze inutili.

Ora si dedicò all’altra zampa e dopo qualche secondo bofonchiò in modo poco chiaro:

— Fa’ delle domande concrete.

Ci pensai su.

— So che l’ultima volta hai lavorato con Abalkin quindici anni fa. Dopo di allora ti è capitato di lavorare con altri terrestri?

— Mi è capitato. Molte volte.

— Hai sentito una differenza?

Facendo questa domanda, non avevo in mente niente di particolare. Ma Ščekn all’improvviso restò immobile, poi abbassò lentamente la zampa e sollevò la testa dall’ampia fronte. Per un attimo gli occhi si. illuminarono di una fosca luce rossa. Tuttavia, non era passato un secondo, che di nuovo si accingeva a rosicchiarsi le unghie.

— È difficile dirlo, — bofonchiò. — I lavori erano diversi, le persone pure erano diverse. È difficile.

Era stato evasivo. Perché? La mia innocente domanda lo aveva costretto quasi a fare un passo falso. Si era smarrito per un secondo intero. Oppure era di nuovo un problema di linguistica? La linguistica in genere non è una cattiva cosa. All’attacco. Direttamente in fronte.

— Ti sei incontrato con lui, — annunciai. — Lui ti ha chiamato di nuovo a lavorare. Hai accettato?

Poteva significare: «Se ti fossi incontrato con lui, e lui ti avesse di nuovo invitato ad andare a lavorare con lui, tu avresti accettato?». Oppure: «Ti sei incontrato con lui, e lui (come mi è noto) ti ha invitato ad andare a lavorare con lui. Hai dato il tuo assenso?». Linguistica. Non discuto, era una manovra piuttosto misera, ma che cosa mi restava da fare?

E la linguistica mi diede una mano.

— Non mi ha invitato a lavorare con lui, — ribatté Ščekn.

— Allora di che cosa avete parlato? — mi meravigliai, coltivando il mio successo.

— Del passato, — brontolò. — Non interessa a nessuno.

— Come ti è sembrato, — chiesi, asciugandomi mentalmente il sudore sulla fronte, — è cambiato molto in quindici anni?

— Anche questo non interessa nessuno.

— Ma no. È molto interessante. L’ho visto anch’io da poco e ho visto che è molto cambiato. Ma io sono un terrestre, vorrei conoscere il tuo parere.

— Il mio parere è: sì.

— Ecco, vedi! — mi meravigliai con sincerità. — E con me ha parlato solo dei Testoni…

Gli occhi gli si illuminarono di nuovo di rosso. Capii che le mie parole di nuovo lo colpivano.

— Che cosa ti ha detto?

— Abbiamo discusso su chi fra i terrestri abbia fatto di più per i contatti con il popolo dei Testoni.

— E poi?

— E poi basta. Solo di questo.

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