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IV

Le colline divennero via via più basse e all’improvviso si aprì davanti a loro un alto terrapieno coperto di neve. Anton notò subito le minuscole figure nere che si muovevano sul crinale. Beh, ci siamo, pensò, e disse:

— Fermati.

— Perché? — obiettò Vadim. — Non lo vedi che là c’è gente!

— Fermati, ti dico!

— Ecco, — brontolò scontento Vadim, ma obbedì.

Ora si gira e mi guarda con disapprovazione, pensò Anton. Che mi tocca fare…

Era in una situazione difficile. La possibilità di imbattersi in una civiltà sconosciuta era estremamente bassa, ma reale, e ogni astronauta conosceva le istruzioni della Commissione per le Relazioni Extraterrestri, che proibivano i contatti non ufficiali con civiltà sconosciute. Ora sarebbe stato sciocco tirarsi indietro, pensò. Avremmo dovuto abbandonare il pianeta Saul non appena abbiamo visto i cadaveri. Avremmo dovuto… Solo che nessuno lo avrebbe fatto. E però le istruzioni ci sono. E contemplavano fra l’altro proprio un caso come questo, quando hai nell’equipaggio uno che brucia dalla voglia di darsi da fare e uno che non si capisce cosa voglia. E tu stesso sei lacerato dalle contraddizioni. Era ormai quasi certo che nelle vicinanze c’erano migliaia di persone alle prese con una catastrofe. Eccole lì quelle persone che vagavano senza un senso per il crinale… E Dimka mi guarda con disapprovazione… E Saul guarda con curiosità eccessiva. Uno Storico con lo skorcer. Fra l’altro non mi devo dimenticare dello skorcer… E le istruzioni sono molto chiare e semplici: «Sono vietati i contatti informali con gli indigeni…». Era molto semplice: se, uscito dall’astronave, notava in giro segni di civiltà doveva «abbandonare immediatamente il pianeta, dopo aver cancellato con cura ogni traccia della sua presenza». Ed io invece ho lasciato un’enorme buca, quella dell’incubazione del bioplano, e, vicino alla buca, cinque cadaveri…

— Beh, cosa succede? — chiese Vadim. — Ti è presa la malinconia?

Ovviamente né i linguisti strutturali né gli storici sanno niente delle istruzioni. Se ne avesse parlato, probabilmente si sarebbero offesi: «Non siamo dei bambini! Sappiamo da soli quello che è giusto e quello che è sbagliato!».

A questo punto Anton si accorse che il bioplano scivolava lentamente in direzione del terrapieno. Prese una decisione.

— Sali sul crinale, — disse. — Mettiti il più lontano possibile dalla gente. Ancora una cosa: vi prego vivamente di non organizzare un gemellaggio fra civiltà.

— Non siamo dei bambini, — disse con dignità Vadim, aumentando la velocità.

Il bioplano con un balzo volò in cima al terrapieno. Vadim sollevò la cappotta, si sporse e fischiò sorpreso. In basso, oltre il terrapieno, si apriva una conca gigantesca, piena zeppa di uomini e di macchine. Ma Anton non guardava in basso.

Guardava con orrore e pietà un uomo curvo, livido di freddo, con addosso un sacco lacero di juta, che andava verso il bioplano, trascinando lentamente le gambe. Aveva la faccia variegata di cicatrici, le braccia e le gambe nude erano coperte di croste, i capelli sporchi erano appiccicati in ciocche disordinate. L’uomo gettò al bioplano uno sguardo indifferente e, superatolo, proseguì lungo il crinale. Quando inciampava, emetteva dei deboli gemiti. Non è un uomo, pensò Anton, somiglia soltanto ad un uomo…

— Signore Iddio! — esclamò rauco Saul. — Che cosa sta succedendo!

Allora Anton guardò in basso. Sul fondo della conca, sulla neve sporca e calpestata, in mezzo a decine di macchine di ogni genere brulicavano, sedevano, giacevano, vagavano o correvano degli uomini scalzi vestiti di sacchi grigi. Intorno a loro, al margine della neve intatta ce ne erano altri schierati in file irregolari. Erano moltissimi, centinaia, forse migliaia. Stavano ritti, con aria tetra, guardando in basso. Qua e là, nelle file, qualcuno era caduto, ma nessuno ci faceva caso.

Nella conca c’erano varie decine di macchine. Alcune erano parzialmente interrate, altre coperte di neve, ma Anton si accorse subito che erano uguali a quelle che avevano visto sulla strada. Qualche macchina si scuoteva freneticamente, senza comando né scopo apparente, schizzando intorno fango e neve.

Anton all’improvviso si rese conto che nella conca c’era un silenzio innaturale. Vi si trovavano migliaia di uomini, ma si sentivano solo i brontolii sordi delle macchine e qualche raro urlo lamentoso.

E la tosse. Di tanto in tanto qualcuno cominciava a tossire raucamente, soffocando e ansimando, come se gli cominciasse il raschio in gola. Immediatamente gli facevano eco decine di gole, e dopo qualche secondo la conca risuonava di secchi colpi di tosse. Per un po’ ogni movimento cessava, poi risuonavano dei gridi lamentosi, scatti bruschi come spari, e la tosse cessava…

Anton aveva ventisei anni, faceva l’astronauta da molto tempo e ne aveva viste di tutti i colori. Gli era capitato di vedere come si diventa invalidi, come si perdono gli amici, come si perde la fede in se stessi, come si muore; lui stesso aveva perso degli amici e lui stesso si era trovato ad agonizzare a tu per tu col silenzio indifferente, ma qui era una cosa completamente diversa. Qui c’era cupo dolore, tristezza e desolazione assoluta, qui si sentiva la disperazione indifferente di chi non spera più in nulla, di chi sa che, se cade, nessuno lo solleverà, di chi non ha assolutamente niente da aspettarsi se non la morte in mezzo a una folla noncurante. Non può essere, pensò. Si tratta veramente di una grande calamità. Non ho mai visto niente del genere.

— Non potremo mai aiutarli, — borbottò Vadim. — Migliaia di persone e noi non abbiamo nulla…

Anton si riprese. Venti astronavi da carico, pensò. Abiti. Cinquemila cambi di vestiario. Cibo, una decina di sintetizzatori. Un ospedale prefabbricato con sessanta padiglioni. Oppure è poco? Forse, non erano tutti qui? E forse non era successo solo qui?…

Bel lavoro avrei fatto se avessi ordinato di tornare dalla strada all’astronave, pensò con soddisfazione.

Stavano in silenzio senza uscire dal bioplano. Non si capiva che cosa stesse facendo la gente nel fondo della conca. Si davano da fare intorno alle macchine. Probabilmente, le macchine erano la loro speranza. Forse le volevano aggiustare o utilizzare per farsi portar via da quel deserto di neve.

Vadim sedette e accese il motore.

— Aspetta, — disse Anton. — Dove vai?

— Sulla Terra, — rispose Vadim. — Non ce la possiamo fare da soli.

— Spegni il motore. Calmati.

— Che cosa c’entrano i nervi? Con i nostri due panini, non li sfami di certo.

Anton prese lo zaino con le medicine e lo gettò fuori. Poi prese lo zaino con le cibarie.

— Prenda, — disse a Saul. — Vadim, prepara il tuo apparecchio traduttore. Devi tradurre.

— Perché? — disse Vadim. — Perché complichi tanto le cose? Perdiamo solo tempo e intanto, qui, ogni minuto ne muore uno.

Anton gettò fuori lo zaino con i viveri.

— Cerchiamo di sapere quanti sono. Di che cosa hanno bisogno. Tutto, insomma. Che cosa racconti se torni ora sulla Terra?

Vadim, senza dire una parola, balzò a terra e si mise in spalla lo zaino con le medicine. Anton rivolse a Saul uno sguardo d’attesa. Saul si sfilò la pipa di bocca.

— È tutto giusto, — disse, — ma non prenda i viveri.

— Perché? I più deboli li possiamo sfamare subito.

— Non faccia sciocchezze. Appena vedranno i viveri ed i vestiti, ci calpesteranno insieme agli zaini.

— Non sono per tutti, — insisté Anton, — spiegheremo che sono per i più deboli.

Saul lo guardò per qualche istante con una strana espressione di compatimento. Poi chiese:

— Lei sa cosa sia la folla?

— Prenda lo zaino, — disse piano Anton. — Che cosa sia la folla me lo spiegherà dopo.

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